di Botho Strauss, regia di Peter Stein
visto al Piccolo Teatro Strehler_ 25 novembre – 6 dicembre 2015
C’era una volta e c’è ancora Der Park di Peter Stein. Scritto appositamente per il regista berlinese nel 1983 da Botho Strauss, uno dei nomi più autorevoli della drammaturgia tedesca del Novecento, lo spettacolo torna ad abitare a più di trent’anni di distanza le sale dei teatri. Non più nella capitale teutonica, come fu all’origine, ma in quella italiana. “È la produzione maggiore di questa stagione (all’Argentina n.d.r.)” così lo aveva annunciato a maggio Antonio Calbi, direttore del Teatro di Roma, in occasione del debutto; “è uno spettacolo kolossal” recita invece il libretto del Piccolo Teatro di Milano che lo ha ospitato fino al 6 dicembre. Le aspettative, insomma, erano alte, anche perché, bisogna dirlo, scomparso Ronconi, Peter Stein è uno dei pochi maestri rimasti a operare sul territorio italiano. E allora anche la durata di quattro ore e mezza (una passeggiata rispetto alla dozzina di ore de i Demòni!) più che un deterrente sembrava una promessa di grandiosità.
Rilettura del “Sogno” shakespeariano ai tempi del punk e di una Germania ancora divisa dal muro, l’opera della coppia Stein-Strauss affronta i timori della società tedesca in prossimità della nuova fase capitalistico-consumista, salutata con estremo pessimismo e disillusione. È così che la notte di San Giovanni, il solstizio d’Estate da cui prende il via l’intera vicenda, cambia di segno: da sabba minore tipico della consuetudine contadina, tradizionalmente associato a culti di fertilità e di abbondanza, si trasforma in rito di passaggio-regressivo, cesura infettiva e sterile tra un’epoca dell’oro e una del ferro. L’avvento capitalista impone infatti una dissacrazione totalizzante, una dismissione del magico che è degradare materialista e imbarbarimento pandemico (culturale, religioso, etico, politico e sessuale) che non risparmia niente e nessuno. Del bosco shakespeariano (eden pagano di spiriti e folletti) non rimane che un sudicio simulacro (il parco del titolo frequentato da pervertiti e teppisti), i filtri d’amore ricavati dalle essenze di Natura si reificano in talismani da bigiotteria, oggetti commerciabili frutto dell’ars umana che tutto corrompe. Per non parlare poi di Oberon e Titania costretti a mischiarsi agli uomini e a terminare miseramente la propria parabola: senza voce né dignità, il primo; regina di un ricevimento deserto, la seconda.
Concettuale, ermetica ed eclettica, la materia narrativa viene affrontata dalla regia di Stein con ugual contegno: a quelle che all’epoca dovevano essere scene provocatorie e di grande impatto (in primis il concerto punk con tanto di chitarra elettrica a tutto volume), si alternano oscuri rimandi interni e virtuosistiche soluzioni registiche (si pensi a uno dei primi scambi tra le due coppie “borghesi” in cui al complicato intrigo amoroso fanno da controcanto movimenti scenici altrettanto laboriosi). Un’altalena dissonante dagli esiti discontinui che dura per la quasi totalità della rappresentazione e che finisce per destabilizzare lo spettatore, lasciandolo disorientato. Già perché se è vero – come ha affermato lo stesso Stein – che Der Park conserva un fascino intramontabile e nell’attualità delle sue tematiche e nell’esattezza delle sue previsioni, è altrettanto vero che il suo aspetto scenico mostra i solchi profondi delle rughe. Tarmato fin dalla scenografia ridondante (resa ancor più ingombrante dai macchinosi cambi scena) e da una recitazione, senz’altro di alto livello, ma sul filo della declamazione, lo spettacolo soffre di un’impostazione eccessivamente “filologica” risultando, nel migliore dei casi, un cimelio bisognoso di restauro. E se l’addetto ai lavori può apprezzarne l’importanza storica, difficile che riesca a fare altrettanto lo spettatore non specialista.
La scarsa affluenza di pubblico registrata nella seconda settimana di programmazione milanese ne è il segno più tangibile, così come lo è la decisione da parte del Teatro di Roma di non pianificare un’ulteriore tournée. Una decisione che non trova d’accordo, ça va sans dire, il regista che dalle pagine (web) del Corriere fa sapere di non voler più avere “rapporti con quel teatro”. Affermazioni di una certa rilevanza, se si considera che proprio Stein era il nome su cui lo stabile capitolino aveva puntato, all’ingresso del nuovo direttore Calbi, per il rilancio del proprio progetto.
Corrado Rovida