In questa edizione di MilanOltre portate Un poyo rojo, in tour dal 2008, e Dystopia, in prima nazionale. Quali sono i loro punti di contatto? In cosa, invece, si dimostrano diversi?

Siamo specializzati in physical theatre, quindi l’aspetto in comune tra i due spettacoli è l’utilizzo del corpo per raccontare una storia. Inoltre, ricorriamo spesso all’ironia, giocando molto in entrambe le messinscene per arrivare al pubblico con un messaggio chiaro e divertente. La differenza tra i due lavori è che in Un poyo rojo non parliamo, ma usiamo una radio dal vivo, per cui le uniche parole che si sentono provengono dalle trasmissioni radiofoniche. Ogni volta che portiamo in scena lo spettacolo è diverso perché improvvisiamo sulla base di ciò che trasmette la radio locale della città in cui ci troviamo.
In Dystopia, invece, la parola è molto presente: ci sono circa dieci personaggi diversi che noi interpretiamo modificando i volti tramite filtri simili a quelli di Instagram, cambiando anche le voci e l’atteggiamento del corpo. Questo spettacolo lavora su una satira pungente, oltre che sull’autoironia: ridiamo di quello che facciamo, di noi stessi, della nostra tecnica e della società in generale con i suoi mille paradossi.

Come mai, in Un poyo rojo, avete deciso di affidarne il racconto esclusivamente al linguaggio fisico a dispetto di quello verbale?

Nelle prove per Un poyo rojo siamo partiti proprio dal corpo, creando una sequenza di movimenti di quindici minuti; successivamente con l’intervento del regista (Hermes Gaido, ndr) abbiamo iniziato a raccontare una storia e a trovare un senso alle varie scene. Tutto comincia quindi da un lavoro fisico , è da lì che ha origine la nostra esplorazione. Il linguaggio corporeo non mente: puoi dirmi “ti amo” ma se quello che mi comunica il tuo corpo è in contrasto, allora ciò che dici perde senso.

Un poyo rojo è ormai diventato uno spettacolo cult, arrivando a registrare il sold-out dopo quasi 15 anni di tour. Considerando la durata di questa esperienza, quali cambiamenti avete riscontrato in questi anni?

C’è da accettare il fatto che i nostri corpi sono cambiati negli anni. Ora abbiamo bisogno di un po’ più di tempo per il recupero dopo gli spettacoli. Gli esercizi acrobatici ci costano più fatica rispetto a prima, ma non per questo li abbiamo eliminati completamente. Abbiamo invece lavorato su una qualità interpretativa che affianca e raggira il corpo fisico e cinetico. Il corpo è cambiato ma lo spirito rimane intatto.

Infatti in Dystopia le grandi acrobazie sono praticamente assenti. C’è invece un massiccio ricorso al dialogo e un profondo lavoro sulla caratterizzazione dei personaggi attraverso il tono della voce e la cadenza. In che contesto nasce questa differente modalità di fare teatro?

Dystopia nasce durante la pandemia, quando gli artisti non potevano lavorare liberamente e ci si sentiva angosciati dai pensieri negativi. Avevamo bisogno di leggerezza e infatti lo spettacolo è nato come un gioco, divertendoci a fare pose con il corpo e costruendo personaggi. In sostanza, abbiamo ricreato in chiave umoristica quello che vediamo nella società attuale.

I personaggi che avete costruito in Dystopia portano in scena uno spaccato del contemporaneo, smascherando le ipocrisie di diversi gruppi sociali. Su quale aspetto vi siete soffermati in fase di creazione?

Abbiamo voluto riproporre un riflesso della società attuale, in cui è centrale il dibattito sul politically correct. Oggi non si possono più dire molte cose che prima invece erano concesse, non si ammettono più determinate reazioni su alcuni temi. Pur essendo nato come un esperimento, anche divertente, in Dystopia l’intenzione politica è stata per noi chiara fin dalla fase di ideazione. Nella creazione dei personaggi, abbiamo giocato sulla costruzione di opposti complementari: queste caricature esprimono pensieri in totale antitesi alla loro apparenza fisica, mostrando così le contraddizioni e le esagerazioni della nostra società.

In entrambi gli spettacoli fate ricorso a elementi di comicità anche grottesca: in cosa consiste secondo voi la potenza dello humour? Quanto può rivelarsi efficace l’ironia per trattare tematiche delicate?

C’è un preconcetto riguardo all’ironia, se qualcosa è divertente non viene considerato così “importante”. Noi crediamo fortemente in quello che portiamo in scena, e anche se sembra partire da un concetto semplice, o appunto da un gioco. Attraverso la tecnica, troviamo la modalità per rendere il nucleo di partenza artisticamente più complesso, ma non per questo concettualmente complicato. Il bello della danza è proprio la sua capacità di semplificazione della vita, è già tutto così difficile: ora che siamo qui, divertiamoci!

a cura di Beatrice Botticini Bianchi e Harriet Carnevale


foto di copertina: Alejandro Ferrer

Questo contenuto è parte dell’osservatorio critico MILANoLTREview