#CROSSROADS Inhabiting the World è l’esito di un imponente progetto dal respiro internazionale volto alla promozione della mobilità artistica, coordinato da Stefano Fardelli: quattro danzatori/autori, con provenienza e background molto diversi tra loro, hanno intrapreso un viaggio in paesi extra-europei (Senegal, Messico, Libano e India) per creare quattro diverse performance concepite insieme a un artista multidisciplinare locale. La commistione delle culture e degli stili ha portato alla costituzione di una miscellanea in cui ciascuno di loro restituisce in veste di testimone la propria esperienza di condivisione e scambio.

L’intervista a Matteo Sedda — performer italiano, naturalizzato belga, che ha collaborato con l’artista Rudra K. Mandal in India — e Mattia Quintavalle, aka SLY — street dancer italiano che ha invece lavorato col musicista senegalese Karim Mansaly — si svolge subito dopo lo spettacolo. A pochi passi dal camerino vengono intervistati Marta Wolowiec — danzatrice e performer polacca che in Libano si è accompagnata al lavoro del videomaker Fadi Sabra — e l’indiano Girish Kumar — danzatore che in Messico ha collaborato con il pianista Ricardo Kruz.  

Il progetto mirava a mettere in comunicazione culture diverse per dare avvio a processi creativi molto personali. Siete voi che avete scelto il posto o il posto che ha scelto voi?

SLY: Sapevo che c’erano quattro opzioni ed essendo io uno street dancer, quando ho sentito parlare di Senegal l’ho trovata una scelta naturale. La mia danza proviene da quel continente e quindi ho pensato: “Quale migliore occasione di andare là dove tutto è nato a livello ritmico?”. Questo è stato fondamentale anche per poter stabilire una connessione con loro: non avendo una lingua comune per esprimerci al meglio, se non ci fosse stato un senso del ritmo comune non avremmo mai raggiunto gli obiettivi di integrazione reciproca.

SEDDA: È stato Stefano Fardelli (referente del progetto Crossroadsndr) a comporre il puzzle. Nel mio caso sapeva che in India avrei incrociato un artista visivo e, conoscendo il tipo di lavoro che faccio qui, ha proposto quella combinazione.

Come si è sviluppato e che direzioni ha preso il processo creativo?

W: La mia direzione era il Libano e il mio compito era quello di farmi ispirata da questo paese nel senso di percepirne l’energia e trasporla nella creazione artistica. Durante le mie ricerche preliminari, ho scoperto che a Beirut era in corso una fortissima crisi economica e sociale, dovuta al limitato accesso della popolazione all’elettricità. Durante il giorno, era impossibile prevedere se la luce sarebbe andata via o quando sarebbe tornata. Sembrava che la gente non avesse più alcuna prospettiva. Arrivata lì, volevo fare esperienza di questa oscurità, ma la luce in studio non è mai andata via, se non alla fine della residenza. Sono dunque partita dal mio corpo e dalla mia percezione del buio, e mi sono riscoperta fragile, vacillante. Ho fatto esperienza della caduta libera e su una lunga improvvisazione ho costruito la prima scena, la più difficile a mio parere. Quando infine in sudio la luce è andata davvero via, ho subito acceso la torcia del cellulare e ho continuato a ballare. Così è nata l’ultima scena, sulle note del Lacrimosa di Mozart.

K: Avevo in mente già da tempo di indagare il rapporto tra la vita e la morte e il fatto che mi fosse stato assegnato il Messico si è rivelato provvidenziale. Sono partito dalla mia personale esperienza per poi investigare le similitudini tra India e Messico: come vedono questi due paesi la vita oltre la morte? In India, il culto dei morti varia sensibilmente a livello diatopico. Da lì, ho poi avviato le mie ricerche in Messico attraverso il sito ufficiale del governo. Ho scoperto che ogni anno i messicani, durante il Día de Los Muertos, tracciano dei percorsi attraverso altari, petali di fiori e carta colorata (unico elemento esterno al mio corpo nel solo) perché i loro defunti possano ricongiungersi con loro senza perdere la via. Qualcosa di simile facciamo in India: ogni anno, durante il Mahalaya Amavasya, prepariamo per i nostri defunti il loro cibo preferito perché instaurino nuovamente un contatto con noi. La cosa più interessante è, comunque, il retroscena: questi gesti di cura, credo, prima ancora di essere indirizzati ai defunti, come ci si potrebbe aspettare, sono indirizzati a chi è rimasto, ai vivi. 

Cosa significa per voi partecipare a un festival? Quando partecipate cosa vi aspettate?

SEDDA: Bisogna distinguere: quando sono interprete e quando sono creatore. Da interprete mi approccio con maggiore spensieratezza. Se invece sono creatore c’è tutta un’altra dinamica, burocratica e politica, che mi spinge ad avere un determinato obiettivo. 

W: Ultimamente ho viaggiato molto per partecipare a diversi festival in giro per l’Europa. Questa è per me una grande opportunità per interagire con diversi tipi di pubblico: sono sempre curiosa di capire il modo in cui gli spettatori colgano il pensiero minimalistico che c’è dietro al mio movimento e se io in prima persona sia in grado di comunicare la mia energia. 

K: Quando partecipo a un festival, di solito, non ho aspettative. Apprezzo molto quando mi è concesso di vivere i miei spazi, adattare il mio corpo a un nuovo contesto, dargli tempo, entrare in connessione con la mente. A MilanOltre questo è successo, e non è mai scontato per me. 

SLY: Non ho mai considerato il festival come un contesto “speciale”. Che sia una battle, uno spettacolo o la televisione dal mio punto di vista si tratta sempre di un privilegio pazzesco.

Una domanda per Sedda. In una tua intervista, al rientro dall’India, parli degli effetti deleteri che ha avuto la colonizzazione. Quanto questa esperienza ha influenzato il tuo lavoro e come è cambiata la tua  percezione di quel Paese?

SEDDA: Io vivo in Belgio. La questione colonizzazione e decolonizzazione è molto sentita, molto più di quanto non lo sia qui in Italia. Andando in India mi sono scontrato con la realtà di questa situazione. Noi Europei, in India, è come se sedessimo su un tavolino d’oro rialzato. In Belgio lo sai ma non lo vedi, in India tutto questo diventa estremo: le persone mi guardavano come una banconota ambulante, mi volevano fotografare… mi son sentito a disagio e ho capito la sensazione di vivere in terra straniera ed essere considerato estraneo. Da artista non ho avuto abbastanza tempo per sondarne gli effetti. Certamente, rispetto al lavoro svolto, tra gli obiettivi che ci siamo posti io e Rudra c’era quello di evitare ogni forma di appropriazione culturale. Abbiamo cercato di capire come non rubare dall’India.  In un primo momento è stato un ostacolo notevole, ma poi ci siamo accorti che poteva portare a qualcosa di molto forte: stabilire una connessione profonda tra le due culture senza dover appropriarsi di nulla. 

Durante la tua performance una spettatrice ha mostrato con vigore il suo dissenso. Considerata la natura provocatrice del tuo lavoro, come ti sei sentito? 

SEDDA: Sono felice quando ci sono reazioni negative… perché ho l’impressione che si stia andando nella direzione di un appiattimento. Le persone non hanno più il coraggio di dire qualcosa di negativo. Anzi! Mi sarebbe piaciuto parlare con questa signora. E invece se n’è andata.

Una domanda per SLY. Quale senso di comunità hai provato in Senegal e come questo ha influito sul tuo lavoro?

SLY: È stato come se fossi uno di loro. Non mi hanno mai fatto pesare il mio colore. Ero una persona comune venuta per ballare. Tuttavia, non si è trattato di un processo immediato. I primi due giorni ho vissuto un’esperienza frustrante: Kaolack è una città davvero estrema e ho vissuto la congiunzione tra due eventi, uno religioso (Ramadan) e uno climatico (i giorni più torridi dell’anno), a causa dei quali, in un primo momento, mi sono trovato da solo in sala prove col musicista. Passata quella fase, mi hanno sempre incluso nella loro comunità e dal canto mio ho fatto di tutto per “meritare” la loro fiducia. Esiste un modo di trattare le persone che qui abbiamo dimenticato. Ricordo solo il loro immenso sorriso nonostante la condizione di miseria estrema. È stata una grande lezione di vita per me.

Una domanda per Wolowiec e Kumar: quali sono i punti di forza di questo lavoro?

W: In generale cerco sempre di puntare alla semplicità del movimento, al gesto minimale ma allo stesso pieno, strutturato. Più che di tecnica, è una questione di sensazione del corpo. Per questo credo che la prima scena, quella della caduta, sia cruciale. È stata inoltre la gente che ho incontrato, in prima persona, a infondere forza e positività a questo lavoro. Non mi sarei mai aspettata, una volta arrivata in Libano, di scoprire che la vita, pur minacciata da queste gravi difficoltà, procedesse con ritmo e positività. Ecco perché alla fine ho lavorato moltissimo con la luce e sulla luce.

K: Ho lavorato molto sulla dimensione psicologica di questo lavoro, accompagnata da una buona dose di autoriflessione. Sono andato a cercare in fondo alla mia memoria: sei anni fa ho perso mio zio e con il mio linguaggio ho cercato di costruire un lavoro attraverso il quale condividere con lo spettatore la mia personale esperienza della perdita. 

A cura di Ivan Colombo e Giulia Russino 


foto di copertina: ufficio stampa

Questo contenuto è parte dell’osservatorio critico MILANoLTREview