Nella tua carriera hai danzato ruoli classici e contemporanei. Qual è la ricchezza che ti ha dato questa duplice prospettiva?

Dal momento che parliamo della stessa disciplina, i due stili dialogano in continuazione. L’uno proviene dall’altro e l’altro ne è arricchito. Tornare a danzare ruoli classici dopo aver attraversato delle esperienze contemporanee mi ha dato accesso a una nuova libertà di movimento. Tecnicamente, una volta usciti da un’accademia classica si è spesso un po’ “formattati”, si conoscono molte forme in un certo senso “statiche” e si passa da una posizione all’altra senza dare troppa importanza a cosa sta nel mezzo. Un grande strumento tecnico che il contemporaneo mi ha dato è invece il lavoro sulle transizioni e la loro fluidità nella continuità, prospettiva che spesso manca nella formazione classica. Del resto il termine “contemporaneo” indica talmente tante cose! Racchiude spesso tecniche e approcci molto vari: i primi lavori che ho fatto utilizzando linguaggi davvero completamente diversi da quello classico sono stati con Anne Teresa de Keersmaeker, Sidi Larbi Chekaoui, Damien Jalet, Crystal Pite, Iván Peréz. Ma anche la tecnica classica rivisitata dei lavori di Jiří Kylián e del primo Forsythe ha riservato le sue sfide. La cosa interessante per me è, malgrado tutto, non abbandonare mai la mia sbarra al mattino. Anche se il mio corpo sta lavorando ad altro, producendo altre sensazioni, cerco di fare comunque il mio riscaldamento classico, anche quando non mi sento troppo a mio agio; perché, in fondo, anche il mio corpo si muove, evolve, i muscoli trovano strade diverse per attivarsi.

Come è stato lavorare con Soulier su un materiale classico? E come è stato lavorare con la voce?

La prima pièce fatta con lui è stata Signe blanc, ed era dedicata alla pantomima. Era la prima volta che usavo la voce e mi è piaciuto molto, al punto che adesso amo parlare durante gli spettacoli e mi sento molto più a mio agio. In questa pièce, in particolare, è stato difficile gestire il momento in cui mostro un gesto che ha un significato pronunciando una parola in opposizione. È disturbante dover dire qualcosa che non ha a che fare col senso di quello che stai facendo, bisogna disconnettere le due cose. Mi ci sono volute tantissime ripetizioni per cercare di separare nel cervello le due azioni, pur facendole nello stesso momento. In altre parti del solo, come l’ultima in cui sovrappongo due gesti diversi nello stesso momento, mi affido molto alla memoria coreografica del corpo, che sviluppo nel vederle e nel ripeterle come movimenti puri, senza significati differenti l’uno dall’altro. Invece è stato più complicato entrare nel lavoro Le royaume des ombres perché era un pezzo che Noè aveva montato su se stesso, senza che io partecipassi al processo creativo. Ho imparato la coreografia in pochi giorni e penso che lo spettacolo abbia iniziato davvero a funzionare solo dopo qualche replica. All’inizio non riuscivo a divertirmi perché volevo eseguire bene i passi. Ma poi ho capito che non si trattava di questo; piuttosto l’idea era quella di interpretare una serie di esperienze sul porre le cose al contrario. Da quando ho iniziato ad accettare questo lato ho cominciato anche a divertirmi, ma è davvero faticoso! (Ride ndr). In realtà è questo quello che mi piace: accettare dei vincoli e andare incontro ai limiti senza cercare sempre e solo la facilità.

C’è stato qualche coreografo o qualche lavoro che hai danzato che ha cambiato completamente la tua idea di danza?

Ce ne sono stati molti! Un’occasione meravigliosa è stata quella di poter lavorare con Pina Bausch, verso la fine della sua vita, alla rimessa in scena di Sagra della Primavera e di Orfeo ed Euridice. Credo mi abbia fatto bene uscire dal mondo della danza classica e approcciare qualcosa di così umano: Pina ti sceglieva per quello che sei, anzi, proprio per come sei. Infatti sulla scena c’ero io e non dovevo, per la prima volta, interpretare nessun personaggio. Questa è stata per me una grande rivelazione. Poi ho apprezzato moltissimo lavorare con Mats Ek, per l’enorme teatralità in scena. Si grida, si interpretano personaggi folli e nevrotici in un lavoro che porta in scena persone quotidiane. È necessario un solido background di tecnica classica, ma l’espressione umana viene prima. Ho amato danzare con Sasha Walz e con la sua meravigliosa compagnia. Quando si ha a che fare con persone di grande esperienza, ci si sente parte del progetto non solo come interpreti ma come individui in un progetto collettivo. E dopo tutto questo, comunque, è sempre bello tornare per me alla danza classica con un bagaglio tutto nuovo.

Cosa ti piacerebbe fare nel futuro, che tipo di progetti e di attività ti interessano?

Oggi mi sento aperto a tutto. Mi si propone spesso di insegnare e amo davvero farlo. Ma dopo una stagione intera a Toulouse ho capito che preferisco essere più indipendente e lavorare a diversi progetti, piuttosto che essere legato a tempo pieno a un’istituzione. Vorrei essere libero per qualche tempo e approfittare per viaggiare dopo la pandemia, così da incontrare persone con un background completamente diverso dal mio. Può significare danzare, insegnare, rimettere in scena o coreografare nuovi lavori… La danza rimane sempre la cosa più importante.

A cura di Shahrzad M.


foto di copertina: Martin Argyroglo

Questo contenuto è parte dell’osservatorio critico MILANoLTREview