Dopo alcuni giorni dal debutto al Teatro Franco Parenti di Milano, Simone Nebbia (Teatro e Critica) e Maddalena Giovannelli (Stratagemmi) dialogano su temi ed estetiche, visioni e destini del Premio Scenario, tendono cioè i fili del teatro che è stato proposto e di quello che sarà.
Simone Nebbia: Non erano in molti, la sera delle “prime rappresentazioni” del Premio Scenario e anche alle finali di Santarcangelo il numero degli osservatori non era elevato. Negli anni passati l’occasione sembrava ricevere un’interesse maggiore, significativo è allora che, proprio in virtù di questo cambiamento, risulta finalmente cambiato anche lo slogan Scenario: non più “il teatro nuovo” ma un’offerta, una proposta per il contemporaneo, senza più l’esclusivismo un po’ modaiolo che aveva contraddistinto il richiamo degli anni passati. Al clamore, insomma, si è sostituita l’attenzione.
Maddalena Giovannelli: Oltre alla garanzia di un riconoscimento economico, è fondamentale che un premio dedicato alla ricognizione del nuovo sappia creare cassa di risonanza intorno alle creazioni selezionate. Sarebbe un peccato se la serata di presentazione di Scenario si limitasse a essere un ritrovo per addetti ai lavori…
S.N.: Accanto alla scarsa fiducia del pubblico, una questione problematica è la frammentarietà dei risultati. Forse è la stessa struttura a suggerire un minimo ripensamento: il premio, under 35 con cadenza biennale, si articola con una prima fase di presentazione dei progetti in vari appuntamenti sparsi per l’Italia, cinque minuti di spettacolo che diventano poi venti nella fase di semifinale e finale. Dai cinque ai venti minuti, ossia dalla prima alla seconda fase, passa il poco tempo necessario ad estendere, invece i venti minuti diventano molto facilmente un piccolo corto perché si è costretti a presentarli e ripeterli in un circuito festivaliero serrato, cioè in troppi luoghi per troppo tempo, nonostante si stia andando ormai avanti con la creazione in vista della presentazione finale.
Inoltre il rischio per alcuni artisti è di rimanere impigliati nel clamore imprevisto: la loro partecipazione è a volte poco strutturata, un po’ casuale, accade così che il tempo di composizione imposto da bando e lo sguardo non troppo cauto degli osservatori renda il lavoro frettoloso e gli artisti incapaci di affrontare il futuro artistico della propria opera, rimasta loro nelle mani senza troppa convinzione. Mi sembra però che quest’anno i progetti vincitori siano decisamente più strutturati, quel difetto è stato (forse casualmente) digerito da proposte solide e con una preparazione notevole.
M.G.: Le proposte mi sono parse meno autoreferenziali dello scorso anno, più incisive. Un primo e importante indicatore è la presenza di gruppi numerosi: un segnale che di questi tempi mi sembra incoraggiante e positivo. Rispetto al rischio che segnalavi prima – quello cioè che i gruppi arrivino all’appuntamento con Scenario non pronti e “all’improvvisa” – gli sforzi di gestione di una compagnia ampia costringono inevitabilmente a una programmazione più strutturata: bisogna trovare spazi, mettere a punto un calendario, cercare soluzioni sostenibili per tutti gli attori, spesso lontani geograficamente.
In due dei quattro lavori di quest’anno abbiamo visto poetiche fortemente influenzate dalla dimensione della coralità, che puntano sulla forza e l’energia del gruppo, che allargano le possibilità di relazione e con queste anche le opportunità attoriali.
Mi è parso poi – più in generale – che al gusto per la sperimentazione formale che ha caratterizzato le scorse edizioni si sia affiancata una maggiore urgenza a livello tematico.
S.N: I temi sì, sono molto più riconoscibili e tutti improntati sul piano sociale, sul “proprio” risvolto sociale. Nei quattro c’è infatti una linea comune: tutti gli spettacoli hanno una connotazione nei territori di provenienza, tre su quattro sviluppano la drammaturgia affondando linguisticamente nel dialetto e scenicamente in situazioni riconoscibili di quella particolare area territoriale. Diverso rispetto agli anni passati quando di più ha vinto l’idea del dispositivo, seguendo quella parabola discendente in cui l’immagine sembra si stia acquietando e che apre nuovamente all’avvento della parola in rapporto all’azione, levigando le differenze fra intenzione drammaturgica e drammatica e riappropriandosi letteralmente della parola nella scrittura scenica.
M.G.: A proposito dei temi: abbiamo vissuto anni in cui il teatro non riusciva a farsi luogo di dibattito reale e urgente per il contemporaneo e in cui i raffinatissimi dispositivi scenici messi a punto rischiavano a volte di nascondere vuoti di contenuto. Finalmente le nuove compagnie si riappropriano della dimensione politica, ma in una prospettiva differente da quella del teatro civile (penso ad esempio al tentativo di InternoEnki con M.E.D.E.A. Big Oil ). La decostruzione e la precarietà delle tradizionali strutture del racconto servono – simmetricamente – a raccontare la decostruzione delle certezze e la precarietà dell’oggi.
S.N.: Sì, c’è in atto un processo più ampio e multidisciplinare: diciamo che potremmo ascrivere il dramma alla forma del romanzesco e sappiamo ormai con chiarezza che in questa epoca letteraria il reportage narrativo quasi fotografico, con uno sfondo sociale problematico, ha superato – o forse meglio dire deviato – la forma romanzo. In teatro vediamo invece che la necessità della scena sembra trovarsi più avanti e dalla narrazione così di moda tra gli anni Novanta e gli anni Zero si stia ormai stabilmente operando un passaggio immaginifico determinante che riaffonda nella scrittura scenica, nell’azione sempre meno scindibile dalla scrittura drammaturgica (come ricorda un bell’intervento di Gerardo Guccini apparso sul numero di Dicembre de i Quaderni del Teatro di Roma).
Giusto resta da capire come possa strutturalmente dare continuità al lavoro artistico una compagnia di tanti elementi che per provare deve darsi appuntamenti da varie parti d’Italia, come nei casi appunto dei due gruppi numerosi. C’è il rischio di disperdere quell’investimento o aver alimentato la crescita di artisti molto giovani, che poi chissà dove e in autonomia porteranno quell’esperienza, è già un valore?
M.G.: Qualcuno nel tempo si perderà e ci saranno sostituzioni – questo va messo in conto ed è fisiologico nella sopravvivenza dei gruppi – ma il nucleo mi sembra abbia motivazioni talmente forti da resistere a questi terremoti. In una compagnia composta (come nel caso dei Fratelli Dalla Via o dei Babilonia Teatri) da due autori-attori una simile transizione sarebbe impensabile.
Sul piano attoriale, poi, in questi anni abbiamo visto tanto: da una parte l’interprete-autore che mette in gioco le sue imperfezioni, le sue caratteristiche apparentemente anti-performative per idee e soluzioni sceniche innovative; dall’altro lato gruppi e interpreti con una preparazione accademica solida ma spesso bloccati in una proposta spettacolare stantia. Oggi torniamo a vedere gruppi preparati alla parola e al movimento, ma che contemporaneamente portano un’idea nuova. Stiamo finalmente arrivando a scompaginare questo doppio binario per aprire un’inedita riflessione sull’attore del domani?
S.N.: Ogni giovane gruppo è animato dall’intenzione di questa “idea nuova”, tuttavia la ricerca affannata ha prodotto molti progetti poveri di qualità. Scenario ha invece proprio nella sua essenza (e potrebbe avere ancor di più) le potenzialità per attuare uno screening nazionale sui vari territori. Potrebbe essere interessante allora, per tornare a questo tipo di centralità, una sorta di focus sulle proposte per rintracciare davvero quelle tendenze, superando un po’ l’arbitrarietà delle scelte. Quindi separare il premio “qualità” da una parte più speculativa sul biennio, perché negli anni in cui mancano certe possibilità unitarie sul panorama contemporaneo, forse Scenario può fare da filtro per un’indagine approfondita che valga da censimento sul teatro che si fa in Italia, magari con un incontro in media res monitorando il gruppo dei finalisti, incaricando magari una squadra che li veda e li valuti nel tempo, pensando a un convegno che dialoghi criticamente con il risultato scenico e chissà anche valutando quanto abbiano o meno girato nei teatri italiani.
Maddalena Giovannelli e Simone Nebbia
Questo contenuto è parte del progetto Situazione Critica
in collaborazione con Teatro e critica
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