un progetto di Francesco Alberici | con Francesco Alberici e Astrid Casali


«Ti capita mai, nella vita, di piangere?»
«Beh, certo»
«Ma tipo… ogni quanto?»
«Non lo so»

«E se io ti chiedessi di piangere per finta?».
L’attrice prova a soddisfare la richiesta del suo regista: fa smorfie, strilla e piange proprio come un bambino piccolo che soffre e non sa perché. Anche da bambina era brava a fingere di stare male, ci dice. Era talmente brava che riusciva a ingannare perfino i medici del pronto soccorso. Anche una volta diventata grande si è trovata a fronteggiare la sofferenza, ma questa volta quella vera: la morte del padre, regista, accompagnata dallo strazio della madre, attrice. Il racconto di questi episodi dolorosi a un certo punto si interrompe alla constatazione che «qui siamo in teatro, e ogni cosa che accade in teatro è stata decisa e provata», non è verità, ma finzione. Quando si tratta di dare un nome al dolore, infatti, tutto si fa strano e difficile. A dirlo è anche il regista che, dal palco, si giustifica col pubblico: «Il dolore forse non lo si può raccontare, lo si può solo circoscrivere. Questo spettacolo non è la messa in scena di un libro, ma il documento delle nostre prove». A ispirarlo, ci confessa, è stata la sofferenza che C.S. Lewis racconta fra le pagine del Diario di un dolore: il resoconto dei giorni di tormento e angoscia che sono seguiti alla morte per tumore della moglie, il cui nome era Joy, gioia: ciò che di più diverso e lontano c’è dal dolore. E in chiusura di questo spettacolo-prova, lo spegnersi delle luci viene accompagnato da Disorder dei Joy Division: ancora, anche qui, la parola gioia. È una semplice coincidenza? Probabilmente sì, non lo sappiamo, ma va bene così; il perché ce lo ricorda lo stesso scrittore britannico: «Non possiamo capire. Il meglio è forse ciò che meno comprendiamo». E questo vale anche per il dolore.

Gabriele Orlandi


«Un giorno una mia amica mi ha detto che il teatro è quel posto dove le persone, a volte, spostano le sedie». Qualche risata del pubblico segue la battuta del regista Francesco Alberici, protagonista insieme ad Astrid Casali di Diario di un dolore. E sulla scena (neanche a dirlo!) si vedono alcune sedie, un tavolo ma soprattutto un grande poster sullo sfondo: un autoritratto di Franz Ecke con il volto tutto bende e cerotti, realizzato a seguito di un grosso incidente. Questo importante elemento visivo compartecipa alla narrazione che il regista sta cercando di mettere in atto. Francesco Alberici ci rende infatti partecipi del motore che muove questo lavoro: cercare di rappresentare il dolore attraverso uno spettacolo di teatro. L’idea è nata, come lui stesso ci spiega, da un testo di C.S. Lewis il cui titolo avrebbe poi prestato il nome a questo primo studio. Ma, accanto a questi due fonti di ispirazione, le parole di Alberici ci guidano verso un terzo – e fondamentale – elemento generativo del lavoro: la vicenda personale di Astrid. Il cuore della drammaturgia è infatti racchiuso nel monologo dell’attrice, che racconta di suo padre, della sua morte e del rapporto con lui. «Nelle ultime settimane di vita di mio padre, gli dissi che stavo frequentando una scuola di teatro, che non era la sua. Lui mi disse che era la scelta sbagliata e avrebbe rovinato il poco talento che ho.» Il dolore di Astrid, che nasce da un rapporto complesso, incontra pienamente il tema del festival e non solo. Il testo di partenza che all’apparenza sembra appena una suggestione rivela in realtà una profonda consonanza con quello che sta accadendo in scena. La via che Francesco e Astrid stanno percorrendo è infatti la stessa di Lewis: rappresentare il sentimento del dolore tramite un’esperienza vissuta, in prima persona, da chi la racconta. Ma, allontanando ogni rischio di retorica sul tema, la chiave che Astrid e Francesco scelgono è quella di una delicata ironia. La mimica facciale dell’attrice accentua questa sfumatura: le micro-espressioni del suo viso sembrano sfidare il peso delle battute pronunciate, e quasi contraddirne la drammaticità. Forse solo così la rappresentazione può farsi argine al dolore, e non solo sulla scena.

Veronica Polverelli