Insolente, sboccato, cinico: l’eroe degli Acarnesi di Aristofane, capace di sconfiggere con lazzi buffoneschi la prosopopea soldatesca di Lamaco, è insindacabilmente toscano. O meglio, un maledetto toscano, come lo definirebbe Curzio Malaparte: è pisano, quello sguardo sulfureo e cinico con il quale osserva tanto la platea quanto il mondo; è livornese quella disincantata capacità di irridere il potere e la sua liturgia, di tramutare entrambi in farsa sguaiata; è fiorentina la postura sfrontata, la vaghezza disincantata. Sarà forse anche per questa appartenenza geografica – impossibile, certamente, eppure così sensata – che La commedia più antica del mondo, il nuovo incontro tra I Sacchi di Sabbia e la classicità, appare quanto mai felice: quasi che Aristofane stesso, nell’ideare e vergare il testo originale, avesse preso in considerazione una possibile traduzione in un toscano pastoso, popolaresco e coltissimo. 

Presentata in prima nazionale a giugno, in occasione della venticinquesima edizione del festival Inequilibrio, la creazione della compagnia tosco-napoletana costituisce una nuova, brillante tappa di un percorso teatrale le cui cifre riconoscibili sono state la sperimentazione linguistica, l’indagine sui formati, il ricorso a un’economia scenica pari solo alla sua efficacia. È una strada, quella del gruppo diretto da Giovanni Guerrieri, che ha infine attraversato il territorio remoto della cultura greca, toccando prima Luciano di Samosata, Euripide ed Eschilo, e giungendo adesso alla commedia: una meta quasi obbligata, considerate le torsioni comiche che avevano contraddistinto Andromaca e 7 contro Tebe. Più che rappresentare così il punto d’avvio di un progetto pluriennale dedicato ad Aristofane – sostenuto, oltre che da Inequilibrio, anche da Kilowatt e Compagnia Lombardi-Tiezzi – questa versione degli Acarnesi sembra essere la naturale risultante di un lungo processo di scavo intorno all’essenza stessa del comico, l’approdo di un’accurata analisi che, non a caso, si inabissa fino alle fondamenta della tradizione letteraria del genere.

foto: Antonio Ficai

Testo più antico tra gli undici a noi pervenuti di Aristofane, Gli Acarnesi va in scena al concorso lenaico del 426 a.C, in un’Atene dai sinistri riflessi contemporanei: una guerra infuria non lontano dalla capitale, demagogia e malcostume avvelenano il dibattito politico, e più ancora che i costi umani a irritare e impaurire parte della cittadinanza sono le ingenti perdite economiche, il progressivo declino del commercio, i limiti imposti ai mercati. È infatti per assicurarsi uno spazio franco, nel quale viga un benessere sostanziale, che il contadino Diceopoli stipula una pace privata con Sparta, suscitando invidie e violenti asti. La micronazione così fondata ha dunque naturali assonanze tardo-novecentesche; la volontà di separatezza, la sfiducia nella classe di governo, il mediocre interesse sovrapposto alla necessità di sopravvivenza, contribuiscono a rendere questo protagonistes un’immagine riconoscibile, un soggetto tipico del nostro piccolo mondo quotidiano. Traslucidi, appaiono nelle sue parole tanto un afflato rivoluzionario quanto una velleità di rivalsa, istanze protopacifiste e mero calcolo: elementi, questi, che rischierebbero tuttavia di rendere gli Acarnesiricorrendo alle parole di Diego Lanza, grecista tra i più insigni e curatore di una pregevole traduzione edita da Carocci soltanto uno strumento per apporre ad Aristofane un’immagine tra le tante «che si sono avvicendate nel secolo scorso, tutte debitrici delle mode culturali venute a succedersi nella critica letteraria». È fin troppo vero, sembrano dire i Sacchi di Sabbia, che Aristofane sia «il poeta della libera fantasia, il polemista politico, l’utopista, lo scrittore carnevalesco e rabeleisiano», ed è forse per questa ragione che scelgono di sottrarre l’epopea di Diceopoli a qualsiasi trita attualizzazione retorica. Ciò che emerge da questa Commedia più antica del mondo (alla cui realizzazione ha contribuito il grecista Francesco Morosi) sono piuttosto tre degli assi principali della ricerca aristofanea – l’attore, la lingua, il comico – la cui intersezione origina un’acuta riflessione metateatrale, e al contempo un congegno spettacolare di finissima fattura.

A un solo attore, non a caso, la compagnia affida il Discorso su Gli Acarnesi di Aristofane, come recita il sottotitolo: a tutti gli effetti un’atipica lectio magistralis, un’affabulazione tanto sofisticata quanto greve, condotta da un superbo Massimo Grigò. Il palco che questa volta ne accoglie l’esasperata gestualità e la straordinaria ricchezza vocale è quello del Funaro, il centro indipendente fondato da Antonella Carrara nel 2009 e che, a partire da questa stagione, si è fuso con Associazione Teatrale Pistoiese per dare vita ai Teatri di Pistoia. L’unione tra le due realtà, dalle specificità e dalle storie differenti, vuole essere nelle intenzioni del presidente Giuseppe Gherpelli e del direttore Gianfranco Gagliardi un’occasione di virtuoso rilancio, forte di un progetto multidisciplinare che spazia nei linguaggi così come negli ambiti. Produzione, programmazione, residenze, interventi culturali extrateatrali, compongono per Teatri di Pistoia una collezione di opportunità di dialogo con il territorio e con le sue comunità.

foto: Antonio Ficai

Ed è di fronte a una platea entusiasta e partecipe che Grigò ha ripercorso la vicenda di Diceopoli, ridotta alle sue fasi salienti: l’assemblea cittadina, la stipula della tregua, la celebrazione delle Dionisie, il mercato, l’incontro con Euripide, il contrasto con gli Acarnesi e Lamaco. Bastano i pochi, misurati passi con cui guadagna il centro della scena, a rivelare la temperatura incandescente del suo lavoro attorale: la camminata spavalda, quello sguardo strafottente rivolto al pubblico, il volto pronto ad aprirsi in un sorriso e a sciogliersi in una violenta cascata di contumelie. Ora inattendibile professore, ora personaggio o corifeo, infine egli stesso autore della commedia nei brevi, fulminanti a parte che sembrano ricalcare la parabasi dell’originale Grigò dà vita a un irresistibile tour de force vocale e mimico. Finanche un’illustrazione anatomica degli effetti che due differenti modalità di comico determinano sul viso una contrazione delle labbra, il leggero gonfiarsi delle gote nel caso del comico “conciliante” e “accattivante”, lo squadernarsi della bocca insieme a una flessione del collo nel caso di quello “ostile” è occasione di misurarsi in una prova d’attore debordante ed eccessiva, alla cui riuscita contribuisce la drammaturgia firmata da Guerrieri. 

Il testo rivela con chiarezza quanto sia soprattutto sul terreno linguistico che si sia giocato il confronto tra i Sacchi di Sabbia e il padre della commedia: l’affastellarsi di lemmi dialettali, di antichità lessicali «fantolina era la democrazia», ai tempi della storia – così come il succedersi di espressione gergali e glossolalie che simulano l’alternarsi di trochei, di anapesti, di cretici, compongono un surreale collage di stili. E varrà la pena sottolineare la scelta di tradurre, e ironicamente tradire, il “nome parlante” Diceopoli in un trasgressivo Dickeopoli, la cui assonanza con l’inglese “dick” offre la prima delle tante associazioni fallocentriche che costellano lo spettacolo e il testo. Il rifiuto del tradizionale ricorso alla mera traslitterazione italiana del nome è così occasione per proporre ulteriori sensi, spassosi e fantasiosi quanto legittimi.

foto: Antonio Ficai

Lungi dal restituire esclusivamente l’intreccio del testo aristofaneo, la creazione ne riverbera soprattutto la ricezione, giocando con gusto slapstick sull’effetto deflagrante che può avere sulla platea odierna il fuoco di fila di volgarità e allusioni sessuali. Ecco che un fallo bianco, unico oggetto di scena (creazione di Noela Lotti) insieme a un tavolo e una sedia, è tanto il protagonista della processione rituale quanto una cornetta del telefono, ecco che «merde secche!» è l’epiteto con il quale rivolgersi alla folla degli Acarnesi, ecco che la platea è invitata a parteggiare per il protagonista al suono di un «Forza Dick!», o di simulare la lapidazione del traditore. Giocosa ma sorretta da un attento studio della fonte, La commedia più antica del mondo agisce, nella sua stratificazione di registri, come sonda per esplorare il destino stesso del genere comico, e con esso l’insanabile frattura che ha attraversato la sua esperienza spettatoriale. In una subitanea variazione timbrica, Grigò ricorda al pubblico quanti lestofanti, traditori, briganti abitassero la platea di un tempo, rammenta sognante come il teatro potesse essere uno specchio verosimile dell’Atene che Aristofane censurava e irrideva; oggi, sussurra sornione, ad abitare il teatro sono solo benefattori, e umiliare i nostri vizi privati l’ingordigia economica, la voracità sessuale, la misoginia è un puro esercizio di stile. Chissà perché invece, ancora una volta, ci ritroviamo a bisbigliare, insieme a Diceopoli, che «il giusto lo conosce anche la commedia».

Alessandro Iachino


in copertina: foto di Antonio Ficai

LA COMMEDIA PIÙ ANTICA DEL MONDO. Discorso su Gli Acarnesi di Aristofane
de I Sacchi di Sabbia
con la collaborazione di Francesco Morosi
con Massimo Grigò
scultura Noela Lotti
produzione I Sacchi di Sabbia
in collaborazione con Compagnia Lombardi-Tiezzi
con il sostegno di Regione Toscana e MIC