Elvira Frosini si sente “un pezzo di carne in mezzo al piatto […]. Un avanzo. Uno scarto messo proprio sul ciglio, in bilico, un pezzo di carne un po’ mangiucchiato e scartato” sulla scena di Digerselz. Lo spettacolo – una produzione Kataklisma del 2012, presentato in Febbraio al Teatro della Contraddizione di Milano – offre una riflessione caleidoscopica e volutamente frammentaria sul rapporto tra cibo, rito e consumo. Il testo, scritto e interpretato da Elvira Frosini, presenta una fotografia disturbante della nostra società bulimica (“i vestiti Armani, le scarpe, i cellulari, i rolex, i suv, le navi da crociera, e gli aerei carichi di masticanti, e aperitivi, finger food, porn food, extreme food, e i party, i Martini”), ma indaga, allo stesso tempo, le analogie tra la dimensione del mangiare e la figura dell’attore: capro espiatorio che offre il suo corpo allo spettatore perché venga mangiato (“sì, avete lo sguardo come di uno che guarda la mucca, e vede la bistecca. No anzi, di uno che guarda l’agnello e vede.. la costoletta”, dice Elvira guardando gli spettatori). Il linguaggio scelto per questo viaggio negli inferi della quotidianità è un blob teatrale che fagocita parole, impressioni e frasi fatte per vomitarle e rimasticarle ancora. Elvira diviene dunque una performer-bocca, la portavoce di una drammaturgia anti-narrativa, dove chi sta sul palco pone delle domande senza incarnare un ruolo.
Digerselz mette in gioco il tema dell’attore accanto a quello del cibo. Come sei arrivata a questa connessione?
“Mentre lavoravo sul tema del cibo – che è stata il mio punto di partenza – mi sono resa conto che quello che mi interessava era la prospettiva rituale. E chi oggi porta avanti la dimensione del rito se non l’attore? L’attore si offre al suo pubblico come cibo, compie il gesto simbolico di mangiare in mondo; e il teatro stesso, nella sua struttura, rimanda a una bocca. Così il lavoro sul cibo si è così rivelato, pian piano, anche un lavoro sull’attore”.
Hai pensato in particolare all’attore di oggi, ai tempi di finanziamenti ridotti all’osso e pesanti tagli al FUS?
“Ho lavorato continuamente in una duplice prospettiva: da un lato avevo in mente la dimensione universale dell’attore, come sacerdote di un rito. Dall’altra non si può non fare una riflessione sul teatro del presente: l’attore è oggi colui che si ostina a mettere in scena un rituale di spreco, che insiste, contro ogni logica, a portare avanti la fatica di trascendere il quotidiano”.
Anche il costume appariscente e la parrucca bionda che indossi rimandano a una dimensione di show, di spettacolo.
“Volevo che fosse continuamente presente l’idea del ‘mettere in scena’, del ‘rappresentare’, dell’‘essere altro da sé’, perché tutto questo è legato all’idea del rito. Ed è per questo che sono arrivata a pensare un vero e proprio travestimento. Tutto lo spettacolo è costruito tra questa dimensione spettacolare e la sua negazione, sempre in bilico tra questi due aspetti.
Poi la parrucca porta inevitabilmente alla luce un altro aspetto: quello del corpo femminile ‘dato in pasto’ al pubblico, un’immagine che viene costantemente rimbalzata da tutti i media. Ho analizzato il linguaggio pubblicitario e mi sono resa conto che la donna è continuamente paragonata al cibo”. (Nel testo, Elvira scrive: “sì sono piccante. Appetitosa. Sono una patatina eh? Sì una patatina croccante, una polpettina, una caramellina, un bignè, una bella pollastra, una bella puledra, una gallinella sciocca appetitosa!” NdR.).
Ancora a proposito della tua riflessione sull’attore: in Digerselz sei sola in scena, ma ti fanno compagnia alcune sagome, quasi dei muti figuranti inanimati. Cosa significano?
“Per un periodo sono stata in residenza a Torino, presso Officine Caos di Stalker Teatro; durante quel laboratorio avevo cominciato a lavorare con alcune ragazze che poi sono state in scena con me nella fase di presentazione di uno studio. Sono stata a lungo in dubbio se proseguire sola, o con altre interpreti. Poi – in parte per ragione di sostenibilità economica, in parte per una riflessione sulla struttura dello spettacolo – ho deciso di affrontare lo spettacolo da sola.
Ma qualcosa è rimasto: ci sono delle sagome che tentano invano di colmare la solitudine del performer sulla scena. Anche quello, come la ricerca del cibo, è un modo per riempire un vuoto”.
Nel testo vengono continuamente richiamate figure materne, e più in generale frammenti di vita famigliare.
“Il tema del cibo è intimamente connesso a quello della famiglia, a partire anche da un punto di vista religioso. Anche in tempi come questi – tempi di famiglie liquide, allargate, disgregate – la connessione tra cibo e famiglia permane: il ‘mangiare insieme’ è qualcosa che definisce l’identità stessa della famiglia. Ma assistiamo a una progressiva banalizzazione di questo convivio: e così anche il legame familiare perde forza”.
Da quali suggestioni sei partita per la creazione di questo testo? e come si delinea per te il procedimento della scrittura?
“In questo caso è stato fondamentale per me un lungo lavoro di osservazione del quotidiano: quando stai lavorando su un tema, ti accorgi che la realtà ti si manifesta in maniera un po’ diversa dal solito, ti balzano agli occhi dettagli che non avevi mai osservato.
Più in generale, per me la scrittura del testo è sempre parallela e interconnessa all’azione scenica: parto da un’idea e la sviluppo, ma allo stesso tempo la verifico costantemente sul palco. Questo processo è indispensabile, soprattutto per uno spettacolo come questo, che cerca un rapporto stretto e ravvicinato con il pubblico e che vive delle sue reazioni”.
Ti è rimasta voglia di tornare a questo tema?
“Avrei materiale sufficiente per un altro spettacolo, e non escludo di tornarci… per ora mi aspettano gli zombie!” (ndR: Zombitudine di Elvira e Daniele Timpano ha debuttato in forma di studio a “Perdutamente” presso Teatro India ed è in fase di elaborazione).
Maddalena Giovannelli