Perché le risorse e le ricchezze non sono distribuite equamente nel pianeta, ma una massa enorme di poveri guadagna come una sparuta minoranza di ricchi? Perché tra questi ultimi ci sono molti ‘furbi’ e disonesti, e tanta gente perbene muore letteralmente di fame?

Non sono domande di oggi, come potrebbe sembrare, ma di due millenni e mezzo fa. Se le pone sulla scena, e risponde alla sua maniera, il commediografo ateniese Aristofane, unico superstite della cosiddetta commedia attica antica. In particolare nell’ultima delle sue undici commedie conservate, rappresentata per la prima volta nel 388a.C. Intitolata Pluto, dall’omonimo dio greco della ricchezza, ha per cardine l’eterna questione della distribuzione di risorse, beni, ricchezze; Aristofane affronta un analogo problema anche in altre commedie, come la precedente Donne a Parlamento, proponendo una ‘equa’ redistribuzione di beni di ‘prima necessità’, dal cibo al sesso, tra l’intera popolazione.

Il Pluto nei secoli gode di fortuna crescente per vari motivi: primo fra tutti la scarsa presenza di satira e attacchi personali che col tempo diventano oscuri, e pongono come è noto gravi problemi di messinscena, e secondariamente il contenuto moraleggiante e in apparenza meno ‘impegnato’ delle altre, dato che in teoria la ‘morale’ della commedia dovrebbe essere che la ricchezza vada finalmente a premiare gli onesti. Almeno, così è stato a lungo interpretato il Pluto, trascurando il doppio fondo che caratterizza il ‘baule’ del comico Aristofane: conoscendolo però dobbiamo aspettarci una sorpresa, perché nelle sue commedie niente è come appare, e chi lo affronta come autore leggero con ‘disimpegno’ alla fine va inevitabilmente fuori strada. Prova ne è il Pluto stesso, che in tempo di crisi economica torna prepotentemente alla ribalta. Vedendolo oggi a teatro non possiamo non pensare alla scena politica italiana, alle campagne elettorali a suon di promesse di sussidi, flat tax e reddito di cittadinanza – ma anche al più ampio scenario internazionale e agli spettri che si ‘aggirano per l’Europa’ tra BCE, crisi dell’euro, fondi monetari e recessione.

Questo è il contesto in cui nasce e si giustifica ampiamente la libera riscrittura da Aristofane, Dio Pluto di e con Jurij Ferrini in scena al Teatro Carcano di Milano fino al 25 marzo: già il titolo potrebbe sembrare una bestemmia (ammette lo stesso autore nelle note di regia), e in parte lo è. O almeno centra perfettamente una contraddizione in termini, uno dei problemi chiave posti dai testi antichi, specialmente comici: ossia la presenza di divinità oggi scomparse, personificazioni di forze o entità astratte, che i Greci nominavano e sbeffeggiavano senza mezzi termini (basti pensare allo stesso dio del teatro, Dioniso, oggetto di irrisioni inclementi da parte dello stesso Aristofane nelle Rane, che l’anno scorso ha sbancato il botteghino di Siracusa, con Ficarra e Picone, e quest’anno si replica a grande richiesta a luglio).

Nel Pluto il dio omonimo si presenta come mendicante cieco (a evidenziare la mancanza di giustizia, equità e criterio nella distribuzione della ricchezza, di cui si diceva sopra); a guarirlo dalla cecità saranno i due protagonisti della commedia Cremilo, qui interpretato dallo stesso Ferrini, e il suo servo (Francesco Gargiulo) mentre la versatile Rebecca Rossetti annovera tra i suoi personaggi la Povertà (Penia, in greco). Questa figura allegorica, perfetta controparte di Pluto, avverte inutilmente gli uomini dei rischi a cui vanno incontro. Invano: i due protagonisti ridanno la vista al dio con una rocambolesca notte al santuario del ‘santone’ guaritore Asclepio/Esculapio (rispettivamente nome greco e latino, qui fusi in un ibrido di nuovo conio) votato alla medicina alternativa e al macrobiotico (che oggi abbonda nelle pagine di cronaca e in televisione, anche nella satira nostrana). Pluto una volta guarito dispenserà doni agli uomini, come un novello Prometeo sfidando dio (Zeus) e Apollo (qui assimilato a un Gran Maestro massone). Ma gli esiti, come previsto da Povertà, saranno paradossali e controproducenti: tutti avranno tutto, nessuno vorrà più lavorare (neppure gli ‘immigrati’ di oggi, i nuovi ‘schiavi’ che sostituiscono quelli di ieri, menzionati nel testo aristofaneo) l’inflazione e la penuria di cibo dilagheranno per un meccanismo economico che non lascia scampo.

In questo finale Ferrini, come altrove, non nasconde di trarre ispirazione dalla cronaca, anzi ribadisce senza mezzi termini la volontà di interpretare la profonda ‘attualità’ dell’autore con rispetto e libertà (che di fatto sono la stessa cosa, a mio avviso, nel caso di Aristofane: restando fedeli alla lettera del testo si tradisce profondamente la comicità, l’efficacia, il senso ultimo in definitiva). Ferrini dirige con un buon ritmo mettendo rigorosamente al servizio del testo i costumi e le scene di Paola d’Arienzo e gli interpreti (pochi ma ben assortiti e affiatati, in assenza del coro originale, spesso assottigliato sulla scena di oggi anche per ragioni economiche).

La riscrittura spicca per la giusta dose di opportuni riferimenti a fatti e persone di oggi (i ‘politici’, coraggiosamente, alla maniera di Aristofane sono chiamati per nome, con tanto di patronimico che richiama il cognome del bersaglio attuale). Altra nota di merito, Ferrini evita giustamente falsi moralismi, pruderie, eufemismi, rispetta l’alternanza di basso e sublime tipica di Aristofane, quando occorre non rinuncia al turpiloquio (che, come nell’originale, è spesso un intercalare espressivo per marcare le battute soprattutto del servo e dei personaggi ‘bassi’). Uno su tutti, la frequenza del “Vaffa..” che prima di essere ‘usurpato’ come slogan, specie da Grillo e seguaci, ricalca diverse espressioni greche sostanzialmente equivalenti dell’originale. Ferrini sa gestire in maniera autonoma con equilibrio e disinvoltura anche il finale, sospeso e problematico come è già nell’autore greco, che pur assurto a classico non ama certo il ‘classico’ lieto fine. Qui le predizioni di Povertà si avverano sì, ma con un colpo di coda dolceamaro, utopico e retro, falsamente ingenuo, in perfetto stile Aristofane: a 50 anni esatti dal ’68 risuona inevitabilmente disillusa e ironica la battuta conclusiva che propone di assaltare le banche, ridare al popolo il denaro che gli appartiene, battere una nuova moneta e chiamarla “pueblo”. Gli interpreti come raggelati, allineati in posa da Quarto Stato, si congedano dal pubblico seri, senza sorridere, levando in alto il pugno chiuso, sulle note di una versione contemporanea dello storico “El Pueblo Unido Jamàs serà vencido”.

Martina Treu

Dio Pluto
di e con Jurij Ferrini
Da Pluto di Aristofane
Regia Jurij Ferrini
visto al Teatro Carcano dal 14 al 25 marzo 2018

Per saperne di più

  • Sulla fortuna di Aristofane sulla scena di oggi:
    M. Treu, Who’s Afraid of Aristophanes? The Troubled Life of Ancient Comedy in 20th-century Italy, in Ancient Comedy and Reception, ed. by Douglas S. Olson, Berlin, De Gruyter, 2013, pp. 958-9.
  • Sulla fortuna di Pluto e in particolare della figura di Povertà :
    M. Regali, S. Caciagli, A. Capra, M. Giovannelli,  Penia da Aristofane alla scena contemporanea. La forza drammatica di un personaggio anti-comico.(online https://riviste.unimi.it/index.php/lessicodelcomico/article/view/8675)
  • Sulle riscritture da Aristofane del Teatro delle Albe e in particolare sul ripensamento del Pluto di Mandiaye N’Diaye (2008):
    M. Treu, Il gioco della ricchezza e della povertà: Aristofane in Senegal, “Stratagemmi” 7 (2008) pp.111-138.