Testo e regia Franco Branciaroli

Con (in ordine anagrafico) Gianrico Tedeschi, Ugo Pagliai, Franco Branciaroli, Massimo Popolizio

Scene Margherita Palli; luci Gigi Saccomandi

Visto al Teatro Franco Parenti di Milano_ 21-25 luglio 2014

Nell’ironica, densa, fulminea nota alla traduzione di Tre pezzi d’occasione di Samuel Beckett, Fruttero e Lucentini scrivono: “Da sempre, fin da Aspettando Godot (che sembra oggi, in confronto a ciò che venne dopo, un movimentatissimo western), Beckett precipita verso una pièce definitiva, dove il sipario si alzerà su una scena rigorosamente nuda per la trionfale serata d’addio di quei mattatori che sono l’Immobilità, l’Assenza, il Silenzio, il Nulla”.
Dipartita finale, calembour del beckettiano Finale di partita, si apre su una scena rigorosamente vestita: con lamine e legni di baracca, mobili attraversati dal tempo, cuscini che non conoscono acqua, con un finto cane morto di colore azzurro che ricorda i nani da giardino, con oggetti che hanno il sapore di reperti archeologici, con un albero scheletrico, secco.
Il sipario si alza su quattro mattatori, il dormiente e vitale Pol – Ugo Pagliai, lo sveglio e visionario Pot – Gianrico Tedeschi, il Supino e immobile Eterno – Massimo Popolizio, la Morte moritura – Franco Branciaroli. Relitti su una terra che non c’è più, o che forse non c’è mai stata, attendono, ciascuno a suo modo, una fine e, nel tempo che scorre nella baracca in riva a un fiume, forse il biondo Tevere della città Eterna, si rincorrono, in un procedere barocco, i grandi temi, le irrisolte domande (ma ha un senso porle?) dell’umanità, parola pronunciata da Pol dentro una risata caustica.
In questo tempo indefinito c’è spazio anche per i simboli, come l’uovo, presunta origine di vita, che Pol tenta di covare fra esilaranti e dissacranti coccodè, sperando in una “discendenza pennuta”.
In Dipartita finale si gioca attraverso il modo parodico e umoristico, con Nietzsche (il “sono abbarbicato a la ‘tera’ ” del Supino è il “restate fedeli alla terra” di Zarathustra) e l’eterno ritorno, Manzoni, i “maledetti progenitori Renzo e Lucia” e il loro lago, con il “foco” di Cecco Angiolieri, con Agostino – il Santo -, Calderón de la Barca e le variazioni sul tema del sogno (“il sogno arretrato alleva mostri”, “tutta la vita è sogno”), con i Rolling Stones e il big bang.
Ma ci sono anche i bisogni primari che irrompono, gli escrementi di Pol che finiscono in una bombetta d’antan e vengono vagheggiati dal sognante e aereo Pot sul verde luccicante dell’erba, o il piacere del caffè che la Morte vuole prendere con Pot, anch’essi degna traccia dell’uomo in vita, non meno dei prodotti e delle gioie dello spirito.
La grande falce, illuminata di rosso, che segna l’ingresso in scena della Morte, fa ridere, come il modo in cui la tiene Antonio Posalafalce, questo è il nome della Morte che fa omaggio a Totò -Antonio Posalaquaglia de La cambiale. Non è a suo agio con la falce questa Morte, un travolgente e ineffabile Branciaroli; sembra le siano più congeniali i cornetti rossi in bellavista sullo sgualcito cappottone nero.
Il cannocchiale, usato da Pot per vedere i mondi interiori di Pol dal meno nobile degli orifizi, si trasforma in arma del delitto e la Morte viene messa fuori gioco dal Supino che conduce un brioso duello e congeda Antonio Posalafalce con un lapidario “li mortacci tua”. Ma questa Morte è dura a morire e mentre il Supino/Eterno apparecchia il tavolo con microfono e bobine per ascoltare il tanto atteso messaggio di un fantomatico gruppo di Immortali, la Morte si trascina fino al grande letto su cui è disteso Pol. Dalla mimica esilarante di Pagliai si capisce che Pol non è scosso più di tanto dal condividere il suo letto con la Morte: “la Morte muore e lui russa!”, dice appunto Branciaroli, con l’intonazione dell’ “e io pago” di Totò.
Dal “Principe” al “Cavaliere”: la voce fuori scena del leader degli Immortali fa pensare proprio al noto Cavaliere Silvio B. che rassicura elencando tutto quello che c’è, dai gabbiani agli squali, dai vecchi Ray-Ban ai 22 gradi, “ideali per l’aperitivo”, e quello che ci sarà: “gli faremo cadere la manna… faremo un sacco di miracoli… faremo vincere i Troiani… un Olimpo sempre su di giri”.
In tutto questo pieno si avverte, forte, l’Assenza, la caduta di Dio, il suo oblio.
Lo spazio e il tempo lasciati vuoti da Dio, “l’Inchiodato” di cui parla il Supino, vengono occupati da una scienza e da un tecnicismo al di là del bene e del male, al di là degli alberi che Pot vede muoversi nelle sue visioni.
Resta per pochi il privilegio della cultura, il giogo lieve della sua eredità, che è forse quella “promessa” che il Supino aspetta e che, erroneamente, immagina in un improbabile altrove, forse perché non ha mai sperimentato la condizione della cecità, quella che invece il cieco Pol conosce bene, che conoscono bene i poeti. E così alla poesia di Pot e al suo canto del cigno, accompagnato da una danza lieve e stralunata, è affidato il finale di questa partita.

Raffaella Viccei