Era il 2013 quando Ayad Akhtar vinse il premio Pulitzer con il testo teatrale Disgraced, la storia di Amir Kapoor, avvocato di successo in un prestigioso studio newyorkese, che, incoraggiato della moglie Emily, pittrice bionda e americana affascinata dal mondo islamico, si trova a difendere un imam accusato di terrorismo. Una posizione complicata quella di Amir che, nonostante le origini pakistano-musulmane della sua famiglia, è diventato agnostico negli USA, dove lavora per uno studio di soci ebrei. La girandola etnico-religiosa-politico-sociale diventa ancora più ingarbugliata quando Amir ed Emily invitano a cena Isaac, curatore che ha prodotto la prima mostra di Emily, (ispirata all’islam), e Jory, la sua compagna afroamericana, avvocatessa e collega di Amir.
È qui che inizia la caduta in disgrazia: quattro facce del melting pot americano si trovano a confronto, riaccendendo il dibattito su quando e quanto il retaggio culturale di una società influenzi il nostro rapporto con gli altri. Come già narrato da Mohsin Hamid nel romanzo The Reluctant Fundamentalist (Il fondamentalista riluttante, Einaudi, 2007), in un mondo globalizzato che cosa vuol dire appartenere a una cultura piuttosto che un’altra? Qual è la linea che separa una cultura corretta da quella non conforme al credo di un paese? Se è vero che dopo l’11 settembre è difficile professare liberamente la religione musulmana, non è diventato altrettanto complesso apparire innocenti indossando la shashia o recitando il Corano? Amir è un traditore sia agli occhi degli musulmani, nel momento in cui lavora per “il padrone bianco”, sia agli occhi degli Stati Uniti, che lo hanno accolto ma non possono dimenticare la sua origine: bastano i suoi tratti mediorientali a renderlo meno americano della sua compagna Emily.
Jacopo Gassmann, regista attento alla drammaturgia contemporanea che per primo ha scoperto e portato in Italia Disgraced, non cerca riposte, ma lascia che sia il testo di Akhtar, efficace e di raro spessore, a fare il lavoro ‘sporco’ e svelarci i risvolti deflagranti di questa vicenda. La messinscena è dunque funzionale alla narrazione: pulita e immediata, priva di ogni inutile superficialità, è accentuata da una scenografia bianca, lucida e patinata, come un’ inquietante sala chirurgica. Un luogo asettico e senza tempo dove analizzare i sentimenti umani fino al midollo, scavare senza lasciare scampo, imponendo a chi è sul palco di mettersi a nudo: Hossein Taheri nei panni di Amir fa cadere le proprie maschere sociali abbandonando il politically correct, e rimanendo solo con una nuova identità da creare. Anche Francesco Villano (Isaac) e Saba Anglana (Jory), “già dalla parte dei giusti”, collaborano a questa metamorfosi, mostrando con precisione il cinismo capitalista dei loro personaggi. Diverso invece il ruolo di Lisa Galantini (Emily) che riduce un personaggio potenzialmente coprotagonista ai cliché di una upper-class incapace di indossare maschere sociali diverse dalla propria vacuità.
Il pubblico sospeso in questo conflitto senza requie non ha il tempo di prendere posizione: è fuori, dopo lo spettacolo, che lo spettatore metabolizza. La storia di Amir potrebbe essere ambientata in un qualsiasi paese occidentale, gli attentati che ormai a cadenza mensile avvengono ci richiedono ogni volta di rielaborare il nostro concetto di identità e cercare nuovi parametri culturali per la creazione di una multi-comunità integrata. Un processo tortuoso e niente affatto scontato, che trova nella dimensione teatrale uno dei tanti passaggi tra le barriere che in molti vorrebbero edificare.
Giulia Alonzo
Disgraced
di Ayad Akhtar
traduzione e regia Jacopo Gassmann
con Hossein Taheri, Francesco Villano, Lisa Galantini, Saba Anglana, Marouane Zotti
luci Gianni Staropoli
scene Nicolas Bovey
costumi Daniela De Blasio
assistente alla regia Mario Scandale
produzione Fondazione Luzzati/Teatro della Tosse onlus, Teatro di Roma Teatro Nazionale
Visto al Teatro Filodrammatici di Milano_20-25 marzo 2018