di Ramón María del Valle-Inclán
regia di Damiano Michieletto
visto al Piccolo Teatro Studio Melato di Milano _25-30 aprile 2015

Una tragedia senza catarsi. Non c’è sollievo né rigenerazione nelle Divine Parole di Ramón María del Valle-Inclán in scena al Piccolo Teatro per la direzione di Damiano Michieletto. Una scelta drammaturgica coraggiosa e nient’affatto scontata: il regista, che aveva già stupito il pubblico milanese con una spregiudicata versione dell’Ispettore Generale di Gogol, questa volta si mette alla prova con un testo cupo, immaginifico e si scontra con l’umanità disperata che lo abita.

Denaro, tornaconto personale, bassi appetiti sono le uniche motivazioni che spingono i personaggi di Valle-Inclán ad agire. Al centro del racconto ci sono la famiglia dell’abate Pedro Gailo (Fausto Russo Alesi) e una bambina appena rimasta orfana, affetta da deformità fisica: chi si occuperà di lei? La moglie di Pedro, Mari Gaila (Federica di Martino) oppure la sorella Marica del Reino (Cinzia Spanò)? In questa poco salomonica contesa dell’infante, nessuna aberrazione manca all’appello: alcolismo, violenza, tradimenti, tentativi di abuso sessuale.
Di fronte a tanto orrore stupisce apprendere che Divinas Palabras è definita, fin dal sottotitolo, una tragicommedia. Aristotele, nella Poetica, ci ricorda che la commedia rappresenta “qualcosa di brutto e stravolto, ma senza sofferenza”: nella tragicommedia dell’autore galiziano, la sofferenza si trasfigura in un codice carico, grottesco, quasi espressionista. La deformità, fisica e morale, è del resto fulcro dello spettacolo e sembra affliggere come una peste l’intera comunità: Michieletto dà vita ad un ambiente fosco e infernale amplificando i caratteri più neri del testo. A dare un apporto decisivo, in questa prospettiva, è la bella scenografia di Paolo Fantin: un ampio quadrilatero pieno di fango all’interno del quale tutti i personaggi sono costretti a muoversi, intellegibile metafora della degradazione a cui assistiamo. E poi, ancora: luci cupe, musiche angosciose, morti che fanno da contrappunto all’agire dei vivi.

L’impressione, però, è che lo spettacolo non riesca ad andare fino in fondo nella direzione barbarica perseguita e dichiarata fin dalle note di regia: gli attori sguazzano nel fango ma restano fin troppo ‘puliti’, il loro parlare è urlato ma allo stesso tempo sorvegliato, quando non del tutto accademico. L’adulterio di Mari Gaila con il conturbante Séptimo Miau (Marco Foschi) si consuma, significativamente, su un trasparente lenzuolo di plastica; e la volontà di proteggersi dal fango, di sporcarsi ma non troppo, contraddistingue l’intero spettacolo, che finisce così per apparire estetizzante e troppo ‘confezionato’. Non mancano tocchi pulp, al limite del kitsch (sangue finto, maschere suine, carrozzine che si capovolgono da sole): un insieme debordante di segni ed effetti, che lasciano però qualche dubbio sulla loro reale necessità, anche in rapporto all’enorme dispiegamento di forze impiegato per realizzarli. Si riconoscono idee, capacità di visione, volontà di interpretare il testo – e di questi tempi non è merito da poco: ma non si guadagnerebbe in efficacia rinunciando agli aspetti più esibiti e amplificati?

Maddalena Giovannelli