regia di Antonio Latella
visto al Teatro Elfo Puccini di Milano_2-13 Maggio 2012

C’è una consonanza profonda tra il lavoro di Antonio Latella e l’anima dell’Elfo che lo ha ospitato. L’Elfo Puccini si sta affermando in queste ultime stagioni come uno dei poli più incisivi e importanti della programmazione milanese, in grado di attirare un pubblico vasto e non solo di addetti ai lavori. Ma il salto innegabile che l’ingresso nella nuova sede ha comportato non ha cambiato la vocazione del gruppo: la programmazione non si rifugia nel repertorio, si prende il rischio di drammaturgie contemporanee e regie di sperimentazione. Qualcosa di non molto diverso si può affermare per Antonio Latella: i recenti incarichi importanti (la direzione del Nuovo Teatro Nuovo di Napoli tra il 2010 e il 2011) non sembrano averlo indotto a rinunciare alla personale cifra poetica né avergli fatto passare la voglia di osare. Di questo Don Giovanni tutto si può dire tranne che la regia sia indecisa e l’adattamento convenzionale: c’è molto – se non troppo – nelle tre ore dello spettacolo in scena fino al 13 Maggio. C’è Molière, c’è Mozart, ma c’è soprattutto un personaggio che ha attraversato la cultura occidentale. Ed è con quel corposo bagaglio che Latella fa i conti. Proprio come Eschilo, Sofocle ed Euripide attingevano ad un tessuto mitico già noto e condiviso dagli spettatori per introdurre, come una firma d’autore, la propria variazione, così fa la drammaturgia firmata da Latella e Linda Dalisi. Ed è proprio nel confronto con il già noto, che emerge lo scarto e dallo scarto l’ironia: si può giocare con parrucche e abiti Settecenteschi, come a mettere un leggero virgolettato nel tessuto drammatico, si può fischiettare un motivo mozartiano accanto a Raffaella Carrà, e si può persino cambiare il finale. Se la tragedia è morta e gli dei sono caduti, come punire il libertino Don Giovanni se non con il contrappasso di una lunga vita monogama?
Anche la scelta più appariscente della riscrittura – quella di trasformare la molieriana locanda di Mathurine in un bordello e Pierrot in un travestito – acquista spessore proprio nel controluce: sottolinea, come un evidenziatore su un testo già scritto, il gioco oppositivo tra i sessi, la difficoltà di uscire da schemi e ruoli sociali e sessuali, e allo stesso tempo, la vita quasi monastica di chi si è consacrato al Dio-Amore. Ad emergere con forza è quindi la dimensione meta-teatrale dell’allestimento: come già altrove (penso in particolare alle Nuvole con la riscrittura di Letizia Russo) Latella sembra voler abbattere ogni residuo di convenzione. Così il palco resta nudo, tra funi e porte di sicurezza, e saranno gli attori a spostare una luce. La scena non è un “altrove” rispetto al pubblico e gli spettatori vengono sollecitati di continuo: oltre alla più scontata discesa in platea a cercare il commendatore (“qui sono tutti morti!”), ci sono le luci che frugano tra le sedie e non lasciano tranquillità e gli attori che di continuo chiamano in causa chi li guarda.
Di fronte ad pubblico che lo conosce, Don Giovanni non ha più bisogno di dimostrare la propria potenza seduttiva: appare stanco, silenzioso, volutamente in minore, come chi porta avanti un ruolo da troppo tempo. Energico è invece Sganarello, che attinge a piene mani da tutto il patrimonio da commedia dell’arte e al quale – come si addice al genere comico – è concessa qualche incursione nella contemporaneità, dalla Santanché all’Aspirina.
Qualcosa poteva essere tagliato, qualcosa pulito, qualcosa assestato: ma c’è una regia forte e coerente, ci sono attori che la percorrono non solo con mestiere, c’è un’evidente necessità di non accontentarsi. C’è, insomma, del buon teatro.
Maddalena Giovannelli