Nella Berlino degli anni ’20 Max Hermann-Neiße descriveva quella del dramaturg come una figura multipolare necessaria alla trasformazione dei teatri tedeschi in «palcoscenici essenziali». Per Hermann-Neiße, il dramaturg non corrisponde soltanto all’autore di testi teatrali, non deve essere per forza un letterato, «ma sarebbe meraviglioso se potesse essere un poeta», e dovrebbe essere una maestranza teatrale che sappia mantenere le diverse discipline con cui si confronta «in uno stato di costante fluidità». Un profilo che sembra corrispondere in buona parte a Bernhard Studlar, la cui attività di drammaturgo, co-autore insieme a un altro drammaturgo, organizzatore teatrale e firmatario di manifesti si inserisce perfettamente in questo solco di multipolarità fluida.

Dopo gli approfondimenti sui testi Trilogia della meraviglia, A. è un’altra e Notte senza stelle, abbiamo deciso di interrogare direttamente la sua voce, rivolgendo a Studlar alcune domande sulle sue mansioni poliedriche, sui suoi lavori e sul futuro del teatro d’autore.


Hai iniziato a lavorare nel mondo teatrale svolgendo il mestiere di dramaturg, una figura non ancora affermata nel panorama italiano. Potresti raccontarci come ci sei arrivato?
Ho sempre voluto lavorare in teatro, ma dopo aver terminato gli studi non avevo idea di come fare. Quindi ho iniziato l’università, ma ho colto la prima occasione – presentatasi dopo una lezione sul teatro per l’infanzia – per cambiare percorso. Ho iniziato a lavorare al Theater der Jugend (Teatro per Ragazzi) di Vienna. È stato una sorta di praticantato di due anni. È un teatro abbastanza grande, con due sale, più di dieci produzioni all’anno e oltre 30.000 spettatori a stagione. Lì ho avuto occasione di imparare davvero molto dell’aspetto organizzativo di un teatro: come creare un repertorio, organizzare le prove, fare ricerca. Ho lavorato sia come dramaturg che come assistente alla regia e, ovviamente, ho letto molti testi. Ma, onestamente, all’epoca non avrei mai pensato di diventare un drammaturgo. Piuttosto, sognavo di diventare regista.

La tua carriera si distingue per essere molto sfaccettata: sei stato dramaturg, fondatore di un centro per le nuove drammaturgie, drammaturgo… Inoltre, insieme ad Andreas Sauter, hai dato vita ad una pratica non molto usuale ma molto interessante, la co-creazione. Com’è iniziata la vostra collaborazione? Come funziona il vostro meccanismo di scrittura?
Andreas ed io ci siamo incontrati la prima volta il giorno del nostro esame di ammissione presso l’Università delle Arti (UdK) di Berlino e, fortunatamente, ci hanno presi entrambi. Siamo diventati amici e dopo il primo anno abbiamo iniziato a lavorare insieme. Ciascuno di noi passava attraverso molti tentativi ed errori nella propria scrittura, così abbiamo pensato che sarebbe stata una buona idea condividerla. Scrivere è un lavoro estremamente solitario e da principiante è facile perdersi. Era davvero utile avere una seconda opinione, diversa dalla propria. Leggendo ciascuno i testi dell’altro abbiamo iniziato a sperimentare la scrittura a quattro mani. E ancora oggi – ormai sono passati più di 20 anni – scriviamo insieme solo quando siamo insieme, nello stesso posto. Come se fossero delle prove. Dialoghiamo fra noi per scrivere i dialoghi fra i personaggi. Siamo dei pessimi attori, ma inscenare i nostri testi seduti al tavolo a volte è molto divertente! Facciamo molte letture, e molte riscritture. Iniziamo ogni giornata di lavoro rileggendo i testi del giorno precedente, e dopo la messa in scena passiamo alla riscrittura.

Più di dieci anni fa, sempre insieme a Sauter, hai firmato il manifesto Prendersi cura di noi – è prendersi cura di voi; 10 desideri per un futuro teatro d’autore (Uns pflegen, heißt euch pflegen10 Wünsche für ein künftiges Autorentheater). Che cosa ha significato quel gesto, quella firma? Che cosa è cambiato da allora?
Ne è passato di tempo: sono dovuto andare a riguardare quei 10 desideri! Sfortunatamente la situazione per i drammaturghi è andata peggiorando. Nelle aree germanofone (Austria, Germania, Svizzera) il teatro si focalizza sul lavoro dei registi. Tutto il resto viene costruito attorno a loro. Il titolo del manifesto, Prendersi cura di noi è prendersi cura di voi, riguarda il cosiddetto canone drammaturgico. Credo che i teatri dovrebbero prestare più attenzione ai drammaturghi in vita, o almeno interessarsi a noi come si interessano ai colleghi morti. Un altro problema riguarda l’organizzazione dei teatri. Un drammaturgo è sempre un esterno o un ospite. Credo invece che ogni teatro stabile dovrebbe avere un drammaturgo residente per almeno una stagione. Il repertorio deve cambiare e deve diventare un 50 e 50 fra autori vivi e autori classici. Il pubblico è pronto e abbastanza ricettivo a questo cambiamento, ma i direttori dei teatri no. E davvero non capisco di cosa abbiano paura.

In opere come Notte senza stelle e Transdanubia Dreaming la tua scrittura sembra avere molti punti in comune con il linguaggio cinematografico. Sei d’accordo con questa affermazione? C’è un genere cinematografico che pensi possa derivare più facilmente dalla scrittura teatrale?
Non ne sono sicuro. Ovviamente drammi e sceneggiature hanno alcuni elementi in comune, ma l’equilibrio tra scene o immagini da un lato e dialoghi dall’altro è molto diverso. Un testo come Notte senza stelle potrebbe effettivamente funzionare come film. Mi piacerebbe molto che Jim Jarmusch ne fosse il regista! Registi come lui o come Kaurismäki, o il grande Sorrentino, mi hanno molto colpito.

Che ruolo ha l’elemento surreale nelle tue opere? Cerca di far esplodere, portandoli verso un “altrove poetico”, temi che sono già nella realtà oppure, al contrario, è qualcosa che semplicemente invade la dimensione del reale e poi tocca ai personaggi farci i conti?
Mi piace il riferimento all’“altrove poetico”, sintetizza perfettamente la mia scrittura teatrale. Quello che avviene in scena non è mai reale, e allo stesso tempo lo è e tutto può succedere. Se succede qualcosa di surreale, come la comparsa della Statua della Libertà in Notte senza stelle, non vi è nulla di sorprendente. Semplicemente: la statua sta avendo una brutta giornata come capita a me o a voi. Mi piace molto creare momenti di questo tipo.

Con la Trilogia delle meraviglie ti sei cimentato nella scrittura per i più piccoli. Da dove è nato questo desiderio e quanto questa esperienza ha influenzato il tuo modo di scrivere successivo?
Avere dei figli mi ha “costretto” ad iniziare a scrivere per i più piccoli, volevo che capissero di cosa mi occupo. Sono un genitore molto fortunato perché ho avuto la possibilità di passare tanto tempo con i miei figli quando erano piccoli. Da questo contatto ho iniziato a pensare ad argomenti e domande che potessero interessare sia me che loro. E ho trovato cose molto basilari come la fiducia, il tempo, la curiosità, la paura e l’amicizia. Ho cercato di trovare un modo per scrivere di questi argomenti in maniera diretta ma, allo stesso tempo, poetica. Una volta qualcuno ha detto che i miei testi per l’infanzia sono come Beckett per bambini. Mi piace la definizione, ma non direi che Beckett sia stato un modello per i miei testi. Ad ogni modo ne ho già scritto un quarto intitolato Annoiato a morte nel pomeriggio più lungo dell’universo (Megafad oder der längste Nachmittag des Universums) e tratta di noia, solitudine e amicizia. Contiene anche una canzone punk. Perché, sapete, l’infanzia è sempre anarchia!

Durante gli anni di lavoro, parte delle tue energie sono state spese a consolidare il rapporto fra il teatro e la città di Vienna. Quali pensi che siano i prossimi passi in questo lungo percorso, soprattutto oggi durante la pandemia?
È una domanda difficile, soprattutto per quanto riguarda la pandemia. Al momento sono molto stanco. Non ho idea di cosa succederà dopo ma ho il timore che tutti noi, gente di teatro, passeremo un periodo molto difficile nel prossimo anno. Spero di fare ancora parte dello spettacolo quando il sipario si alzerà. Per quanto riguarda invece i miei progetti al Wiener Wortstaetten, sarebbe un sogno poter gestire assieme ai miei colleghi drammaturghi un teatro. Dopo tutti questi anni mi sento adatto per un ruolo simile.

Qual è il futuro del teatro d’autore?
Quella della gestione diretta mi sembra una possibile strada. Dovrebbero esserci più drammaturghi a gestire i teatri!

A cura di Francesca Di Fazio, Fabiola Fidanza, Gianmarco Marabini