Nel 2014 la Biennale di architettura di Venezia aveva esposto il progetto Italian Limes, dello studio Folder: una ricerca in progress che si interrogava sulla natura filosofico-politica, oltre che geografica, del mutare dei confini e sul loro essere fragili e incerti. Lo sguardo si concentrava sulla linea che separa l’Italia dal resto dell’Europa, e che si sposta seguendo la sempre più rapida riduzione dei ghiacciai in parallelo con una sempre più precisa misurazione del territorio. L’installazione alle corderie dell’Arsenale restituiva attraverso un pantografo i dati trasmessi in tempo reale da cinque GPS installati a 200 metri l’uno dall’altro lungo un chilometro, rendendo graficamente visibile la mobilità del confine naturale.
Per chi l’abbia visitata, questa immagine di un confine sovversivo, fluido e mutevole, torna con forza alla mente mentre si attraversano le proposte artistiche disseminate nelle sale della Centrale Fies di Dro in questa 37 edizione di Drodesera. Con l’attitudine di pionieri dei nuovi linguaggi della scena, i curatori dell’articolata programmazione del festival – Barbara Boninsegna affiancata ormai da qualche anno da Filippo Andreatta – portano avanti con coraggio e acume una ormai pluriennale esplorazione di un concetto, quello di performance, i cui margini sembrano muoversi in modo sempre più rapido e imprevedibile, diventando via via più inclusivi. In questa ridefinizione pare ormai impossibile, se non per le formalità dei contributi ministeriali, far rientrare le singole proposte in uno specifico settore artistico. Il Supercontinent che dà il titolo a questa edizione restituisce allora l’immagine di una realtà artistica fluida e mutevole, un ecosistema il cui equilibrio si raggiunge nell’incontro delle diversità e che si fa filtro di uno sguardo sulla realtà e sui temi più urgenti dell’oggi. Ecco che il confine torna allora ad essere non solo strumento di ricerca ma anche oggetto dello sguardo, portandosi dietro migrazioni, conflitti, lutto e memoria.
Nei due giorni nei quali abbiamo partecipato al festival sono molti gli spettacoli che mettono al centro questi temi. A cominciare da Simple as ABC #2: Keep Calm & Validate del belga Thomas Bellinck, un musical-documentario che guarda alla macchina migratoria da un punto di vista inusuale, quello della digitalizzazione della gestione delle migrazioni e dei database di distribuzione. Originale è anche la restituzione di questa ricerca, in una scrittura scenica che incrocia musica e data objects in quattro atti cantati da due performer sulle musiche di una vera e propria orchestra. Lo spazio scenico è delimitato da tendoni scorrevoli appesi su binari con gigantografie che riproducono immagini iperreali delle control rooms di frontiera ma anche il più noto quadro di Gericault, La Zattera della Medusa, ispirato a un fatto di cronaca del 1816 e metafora del naufragio di tutta la nazione francese. Al centro, una pedana a base circolare è in costante rotazione: il movimento permanente costringe i performer a camminare di continuo, anche solo per rimanere in uno stesso punto. Bellinck rappresenta uno status – quello dei migranti in bilico tra speranza e disperazione e di una fortezza-Europa in cui i confini si trovano ovunque, dalle navi ai camion, dalle sale di controllo ai database – in una forma allo stesso tempo cinica, ironica e di profondità scientifica che a molti é risultata di difficile fruizione, necessitando forse di maggiori variazioni.
Il confine è indagato nei termini della ridefinizione del concetto di ospitalità nel lavoro di Massimo Furlan Hospitalités, un progetto artistico ad ampio raggio basato su una scrittura collettiva esito di una sperimentazione sociale-politica in un villaggio dei paesi baschi francesi. L’operazione, in sinergia con il sindaco, ha coinvolto degli abitanti in un processo di indagine sull’identità locale, sulla propria predisposizione all’accoglienza, sulle conseguenze e le variazioni provocate dall’apertura ai rifugiati, e ha portato in ultima istanza a ospitare una famiglia siriana. Lo spettacolo è così solo la restituzione scenica di un lavoro partecipativo sui processi migratori, in una scrittura collettiva in cui ognuno degli abitanti in scena racconta qualcosa di sé, del proprio passato, del suo rapporto con il luogo, con la cultura locale e, non ultimo, con l’accoglienza dei migranti, seguendo le indicazioni drammaturgiche che si leggono in controluce in una ben strutturata architettura delle parti.
Due lavori di carattere più installativo indagano il confine entrando nel vivo delle aree di conflitto del medio oriente. L’artista libanese Tania El Khouri in Gardens Speak realizza un’installazione sonora interattiva che raccoglie le storie di dieci martiri siriani, scritte in prima persona e raccolte dall’autrice attraverso le testimonianze dei parenti e degli amici dei defunti. Lo spazio dell’installazione è un semplice rettangolo di terra con dieci lapidi che evoca i giardini privati che, in Siria, si sono trasformati in luoghi di sepoltura accogliendo i corpi di migliaia di morti. Davanti a ogni lapide è seppellito un diffusore audio, uno per ogni spettatore. Per ascoltare quella voce, ci si trova costretti a scavare, a diventare tutt’uno con la terra e ad essere parte di un lutto. L’installazione di per sé è molto semplice. Ciò che è interessante di questa operazione è l’affidamento e la restituzione del ricordo e del lutto che, partendo da una ricerca quasi etnografica, crea una stratificazione potenzialmente infinita di relazioni uno a uno tra il defunto e chi ne raccoglie la memoria attraverso il tramite delle famiglie: a esse verranno restituite, in cambio, le lettere scritte e seppellite sotto terra dai singoli spettatori.
Un legame a distanza, questa volta tra il performer e diversi pubblici, è anche quello creato dal libanese Raafat Majzoub nella durational performance The Perfumed Garden: Hekmat, xx. Qui il confine è quello che la legge libanese rende un muro impossibile da valicare, ovvero quello con l’Israele. Al centro della performance – che nella versione presentata a Centrale Fies è di fatto un’installazione che vede la partecipazione dell’artista a distanza, impossibilitato a entrare in Europa per il rifiuto del visto Shengen – è la scrittura in tempo reale via drive di un capitolo del sequel del primo romanzo di Majzoub. Concepito negando un’interattività che avrebbe potuto ulteriormente valorizzare l’assoluta eliminazione di confini e l’annullamento delle distanze, il progetto trova la sua forza nel tentativo di ridefinire lo spazio del reale attraverso la pratica artistica. Per i 120 minuti della performance, Centrale Fies diventa il centro in cui si incontrano la scrittura in remoto da Beirut dell’artista, alcune cartoline che verranno spedite il giorno successivo alla performance in Palestina, il suono registrato della penna che ha compilato quelle stesse cartoline e l’audio captato nel luogo dell’installazione e trasmesso in tempo reale su una radio israeliana. L’attraversamento dei confini si riposiziona alle dogane aeroportuali per Michizaku Matsune, performer e coreografo giapponese con base a Vienna. Il punto di partenza del suo Dance, If you want to enter my country! è la storia del danzatore Abdur Rahim Jackson, costretto a ballare al controllo immigrazione dell’aeroporto di Tel Aviv durante una tournée per dimostrare di essere “dancer, not terrorist”. Pochi oggetti scenici sono i punti di appoggio che rimandano con semplicità ai diversi “capitoli” di una frammentaria narrazione che a partire da questa vicenda mette in discussione, con ironia, termini come sorveglianza, controllo, sospetto.
La molteplicità di linguaggi a Drodesera restituisce la ricchezza di una ricerca che il festival porta avanti, in progress, sulle arti performative, spaziando dal musical-documentario all’esito di un processo di coinvolgimento degli abitanti, dall’installazione sonora alla durational performance, da uno spettacolo per un solo interprete che mescola danza e parola fino alla performance partecipativa in cuffia di Rima Najdi Think Much. Cry Much, che invita i partecipanti a interrogarsi sul confine inteso come “rituale” nella relazione con la propria presenza e con quella dell’altro. In questo Supercontinent – di cui quelli qui raccontati sono solo alcuni esempi – i confini si fanno allora sempre più indefiniti e fluidi, mescolando gli spazi del reale e quelli della performance. Proprio come nel limite che divide il nostro paese dall’Europa, dove una linea si sposta seguendo l’incontrollabile scioglimento dei ghiacciai, nelle ricerche della scena – come scrive Bellinck nelle note che accompagnano il suo progetto – “il confine è un parassita geneticamente umano, che muta, sposta e infetta”.
Francesca Serrazanetti
Simple as ABC #2: Keep Calm & Validate
di Thomas Bellinck
Hospitalités
di Massimo Furlan
Gardens Speak
di Tania El Khouri
The Perfumed Garden: Hekmat, xx
di Raafat Majzoub
Dance, If you want to enter my country!
di Michizaku Matsune
Think Much. Cry Much
di Rima Najdi
Visti presso Centrale Fies, nell’ambito di Drodesera_21-29 luglio 2017