Teatro delle Albe
di e con Roberto Magnani e Simone Marzocchi
testo Nevio Spadoni, musica Simone Marzocchi
visto presso Vulkano, San Bartolo, Ravenna (nell’ambito di Scena Contemporanea) _ 23-28 febbraio 2016

Una luce soffusa, quasi crepuscolare, illumina alcuni fili al lato della scena. È un’oscurità velata ad accogliere l’occhio dello spettatore, mentre la ruota di un vecchio arcolaio non smette di girare, scandendo, a poco a poco, un ritmo che pare girare su sé stesso, in un angolo di scena che diviene, fin da principio, potente e dirompente fucina di immaginari possibili. E’ Bal, (il ballo), ultima creazione del Teatro delle Albe, è una minuziosa tessitura di frammenti, tra quel che appare visibilmente e quel che si palesa solo tramite l’ascolto. Simili a “sarti” del suono e della voce, Roberto Magnani, attore funambolesco sui fili di una parola “sputata” in un dialetto fresco e potente, e Simone Marzocchi, trombettista e poliedrico compositore di musiche non convenzionali, aprono il “loro ballo” così come si fa in un antico laboratorio d’arte: ago e filo alla mano, puntellano per salti, vuoti, picchi e silenzi, la storia di Ezia, donna ai margini che abita la pianura ravennate, ma abbraccia ipoteticamente tutte le vite di quei protagonisti che vivono all’ombra di storie senza nome. Il ballo articolato in scena si muove così per piccoli passi, a tratti rapidi, a tratti invece lenti, senza mai sovrapporsi, creando un continuum verso una profondità di senso, oltre che di suono.

Se Odiséa (2009) si era dimostrata come la scommessa riuscita per una “lettura selvatica” tratta dal testo di Tonino Guerra, E’ Bal tende il passo poco più in là, dimostrandosi per Roberto Magnani, giovane talento cresciuto nella non-scuola delle Albe, come la possibilità di riprendere il lavoro di ricerca su quel “dialetto di ferro” già ormai ampiamente elaborato da Ermanna Montanari e Marco Martinelli. “Quando Nevio Spadoni mi ha proposto questo testo – confida Magnani – ho subito pensato di unire il mio lavoro a quello di Simone Marzocchi nel suo percorso di ricerca musicale. Il buio produce visioni, ed è seguendo questa linea che abbiamo lavorato”.

Si compongono in questo modo le voci multiformi, incarnate di volta in volta dallo stesso Magnani, che danno spessore alla storia e alla vita di Ezia. A partire da quella del narratore che comincia raccontando i trentasei anni della protagonista, la ricerca di un amore che se ne è andato, tra le voci di paese che intervengono mentre la tromba di Simone Marzocchi soffia e butta fuori aria senza suono: come a voler fare esplodere istanti muti e sordi, prima che sgorghi, improvviso e folgorante, il flusso di coscienza di Ezia. È una maschera statuaria a dare vita alla sua voce: immobile, illuminata da una luce a tratti abbagliante che pare farla debordare dal contorno nitido che la ritaglia nell’oscurità, pronuncia parole a tratti stridule, risucchiate da un sorriso guardingo. Racconta la vita negata, il ricordo sbiadito di quella vecchia giostra arrugginita e l’immagine della cavallina, metaforica promessa di un cavaliere, e dunque d’amore: sono i sogni al rovescio, gli stessi che prendono forma mentre il suono freddo di un chiodo sfregato contro una sega appesa al soffitto ne restituisce la forma, sospesa in aria insieme a quella delle parole pronunciate da un sibilo di voce. Mentre Ezia corre e tenta invano di scacciare le voci che la inseguono schernendola, una lastra di alluminio posta al fondo della scena inizia a vibrare. Si creano vortici, rimbalzi dentro a quello che pare uno strumento magico, contornato da una luce quasi abbagliante. Diventa specchio, intervallo spaziale tra riflesso e profondità della corsa di Ezia: non è che eco, lancio di un suono gettato, non raccolto e destinato a tornare indietro. Proprio come quei sogni al rovescio che Ezia rivede sulla giostra. “Oh la mi tësta e’ pê ch’la m’s-ciöpa”. La testa scoppia, persa tra visione e realtà, mentre il gioco del ballo si esaurisce nel suo triste epilogo di morte.

E’ Bal si definisce come una cristallina metafora della vita, così come la considera Nevio Spadoni: “camminare e correre per inseguire quel barlume di felicità cui tutti avremmo diritto”. E l’abile scarto, difficile e non scontato, generato dalla messa in scena, si intravede proprio nell’essere riusciti a condurre la parola di quell’aspro e dolce “dialetto di ferro” oltre ad una forma immobile, senza sfumature o sbavature, conferendone sostanza, altalenante tra tinte tragiche e comiche. Se il senso di un dialetto stretto spesso sfugge, il chiodo di ferro, la lamina in metallo ritagliano, cuciono, intessono per dare forma a quel significato e per lasciare che i suoi fili continuino a girare nell’arcolaio, anche quando “e’ bal” è una matassa difficile da districare, in nodi non udibili e visibili. Solo in questo modo la partitura testuale-musicale tende il suono proprio lì, dove la vista non ha accesso: la musica evoca la non-voce di Ezia, commistione di umiliazione, di abbandoni, di emarginazione. La parola, sputata in un “dialetto di ferro”, diviene tramite vocale e poetico, non per tradurre, ma per evocare.

L’ingegnosa tessitura del registro linguistico e poetico inventa una musica altra. Il buio della visione, verso cui Roberto Magnani e Simone Marzocchi hanno teso la loro sinergia creativa, si avvicina alla penombra prodotta da un significato alle volte non immediatamente decifrabile (in particolare per i non romagnoli), ma compone una partitura del senso che dimostra come la parola verace pronunciata in dialetto aggiunga materia e forma non previste, che va oltre ad un senso propriamente letterale. E quando un lavoro artistico origina un lento e accurato ascolto in chi osserva, non si può che tendere l’orecchio e sperare che quelle energie sospese, così difficili quanto rare, continuino a sottrarre dall’oscurità immaginari di profonda bellezza e intima realtà.

Carmen Pedullà