Il golpe avvenuto a febbraio in Birmania ha riaperto una ferita che si credeva sanata, gettando nuovamente in ginocchio la neonata democrazia: Aung San Suu Kyi, la “Lady” birmana che da oltre trent’anni guida la Lega Nazionale per la Democrazia (NLD), si è trovata ancora una volta allontanata a forza dalla scena pubblica, costretta agli arresti domiciliari. Per avvicinare lo sguardo ai fatti del Myanmar, abbiamo intervistato Marco Martinelli, regista e drammaturgo, che insieme ad Ermanna Montanari ha dedicato diversi anni di lavoro alla figura di Suu: una ricerca culminata nel 2014 con l’allestimento di uno spettacolo teatrale, successivamente adattato per il grande schermo, in un film che torna oggi a dialogare con gli eventi dell’orizzonte asiatico. Vita agli arresti di Aung San Suu Kyi è disponibile fino a stasera (martedì 27 aprile) su MyMovies.it.

“È distante la Birmania?”. Quella che apre il vostro film è una domanda mite, ma vibrante di provocazione. Cosa ha spinto te ed Ermanna a raccontare la storia del Myanmar? Cosa vi lega alle fatiche del popolo birmano?
Il Myanmar è stato prima di tutto l’incontro con una donna: Aung San Suu Kyi. Attraverso il suo dramma personale abbiamo letto le vicende di un popolo che ha subìto la dittatura più longeva del secolo scorso (e non solo, purtroppo…). È il nostro modo di sentire la Grande Storia: anche l’incontro con l’Africa in precedenza era passato soprattutto attraverso una persona, i suoi occhi ardenti, il suo Islam tenace e gentile, Mandiaye N’Diaye, la “colonna nera” delle Albe, con con cui abbiamo collaborato per quasi vent’anni. La differenza è che con Mandiaye si condivideva vita e lavoro ogni giorno, con Aung San Suu Kyi ci siamo immersi a distanza nelle vicende della sua esistenza. Quando abbiamo iniziato a lavorare attorno alla sua figura, nel 2014, ci siamo resi conto che la sfida era aggirare il ritratto superficiale e falsificante che di lei circolava nei media, per scoprire carne e ossa, sogni e paure dell’“orchidea d’acciaio”, come ancora la chiamano.

E consapevoli della lezione brechtiana, vi siete guardati dal farne un monumento a buon mercato, una Giovanna d’Arco da copertine patinate. Al contempo, però, questo non ha cancellato affatto la possibilità di un coinvolgimento, vostro e del pubblico, nei confronti della storia umana che si cela dietro l’icona di Suu. Cosa c’è nella sua storia che volete custodire e comunicare?
Si è trattato di un incontro – per così dire – casuale (anche se, evidentemente, il caso non agisce mai a caso). È successo in aereo: stavamo andando a New York per mettere in scena Rumore di acque al La MaMa Theatre, quando, aprendo una di quelle riviste che ci sono sempre sugli aerei, vedo un ritratto di donna, delicata e severa allo stesso tempo, e mi viene spontaneo mostrarlo ad Ermanna. Le assomigliava tantissimo! Ed ecco, da lì è nato tutto. Arrivati a New York, cominciammo a leggere su di lei quello che riuscivamo a trovare nelle librerie: più entravamo dentro la sua storia e più ne eravamo affascinati. Innanzitutto, per quella che lei ha sempre definito la “rivoluzione spirituale”, un modo di fare politica che metta l’accento sul coinvolgimento personale, sul sacrificio di sé. E questo non perché Aung San Suu Kyi o noi stessi non si veda l’importanza delle questioni economiche, degli equilibri di potere… Al contrario: quello che sta avvenendo oggi in Myanmar è chiaramente legato agli interessi delle grandi potenze. Allo stesso tempo, la radice prima del nostro esserci – politico e artistico – risiede in quello che si è disposti a pagare di tasca propria: nel nostro sacrificio, cioè nel fare sacra la propria esistenza, nel cercare sempre giustizia, verità, bellezza. Per questo ci ha attratto Aung San Suu Kyi, è questo che in passato ci aveva affascinato nella figura di Gandhi.

Per conoscere la figura di Suu e del suo popolo, nell’estate del 2014 avete trascorso un periodo di tempo in Birmania. Siete stati “sul campo”: eppure avete deciso di non affidare il vostro racconto alla via che sembrerebbe più diretta, quella del materiale documentario. A cosa vi è servito toccare con mano la realtà da cui sarebbe nato lo spettacolo?
Quei quindici giorni in Birmania sono stati fondamentali: l’arte si fa necessaria quando accetta l’urto con la realtà. Non avremmo Caravaggio né Dostoevskij se non avessero fatto a pugni col mondo, se non ci fosse stato in loro questo attrito con la sofferenza delle cose. Andare in Birmania voleva dire incontrare quei volti di monaci, la grazia di quelle giovani monache, ascoltare i racconti degli studenti ribelli, respirare nelle strade il terrore di essere spiati, morire di paura in una baracchetta di metallo sotto la violenza dei monsoni. Quello che abbiamo fatto andando in Birmania non è diverso da quando, due anni prima, avevamo lavorato sulla figura di Marco Pantani, e per farlo eravamo sprofondati nella nostra Romagna, incontrando il padre e la madre del campione, i suoi compagni di corsa, medici e massaggiatori, tifosi e burocrati del ciclismo, e quelli che ancora lo insultavano non comprendendo che capro espiatorio perfetto era stato Pantani, vittima di un sistema sportivo corrotto. O, ancora, non è diverso da quando, per scrivere Rumore di acque, ero andato a Mazara del Vallo a incontrare i migranti che ce l’avevano fatta, che erano sopravvissuti alla traversata in mare, e che al tempo stesso custodivano la memoria sacra degli amici o dei parenti morti nello stesso viaggio. Lavori e avventure ogni volta differenti, quindi, ma uniti dal cercare sempre un intreccio emotivo tra la documentazione e la poesia. Poi, da una parte c’è il reportage che è il mestiere dei giornalisti – e a volte lo fanno anche bene! Il teatro, invece, è un’altra cosa: è forza visionaria, il suo compito è alchemico, trasformare il metallo in oro.

Brecht in questo vostro lavoro rappresenta un evidente punto di confronto – ma anche di scontro. Prima della pandemia ho avuto modo di studiare alcuni lavori di Milo Rau (so che lo avete conosciuto). Mi sembra che in forme piuttosto diverse siate arrivati a riflettere sulla stessa questione: cioè che per confrontarsi con la realtà, lo straniamento brechtiano rappresenta un momento importante, mi verrebbe da dire imprescindibile, ma forse insufficiente. «Per cambiare il mondo la distanza critica non basta», scrive Rau. Occorre in qualche modo riappropriarsi della realtà, trovare delle nuove vie per afferrarla?
Il confronto con Brecht io me lo porto dietro da quando facevo il liceo: la nostra professoressa di italiano, senza rinunciare a Leopardi e Manzoni, ci faceva leggere Brecht e Majakovskij. E quello con Brecht è un confronto che mi ha segnato per tutta la vita: con lui ho sempre avuto un rapporto di vicinanza e distanza. Non mi ha mai convinto la sua diffidenza per l’emozione, quel cinismo esibito: come se il coinvolgimento, la carica intima e spirituale con cui l’arte ci scuote fossero soltanto un retaggio borghese, come se fosse vietato commuoversi. Ma la commozione è un dato politico: le lacrime hanno un valore politico. Sono d’accordo con Milo: Brecht è parte fondamentale del nostro patrimonio, e a volte è importante mantenere lo sguardo disincantato, restare lucidi davanti alle menzogne della pubblicità e di certa politica. Ma non può essere un disincanto assoluto! Abbiamo bisogno di nuovi incanti, anche e soprattutto in mezzo alle miserie di questo XXI secolo. E te ne accorgi se frequenti i bambini e gli adolescenti: come fai a parlar loro solo in termini di disincanto? Di cinismo? Di no future? Convincerli che è meglio non credere più a nulla, che non c’è più nulla in cui credere, a cui affidarci? È come buttare il diserbante su un prato di margherite. Se non si crede più a nulla, come puoi sperare che qualcuno creda in te?

A proposito di vicinanza e distanza: quando nel 2017 Vita agli arresti è diventato un film, è cambiato qualcosa? Che peso ha avuto la mediazione della telecamera? C’è stato un arricchimento o, piuttosto, si è perso qualcosa?
Si trattava della nostra prima prova di cinema. Per noi era come ripartire dalla prima elementare: ci sentivamo come quegli antichi calligrafi cinesi che, raggiunto un certo livello di sapienza, si cambiavano il nome per “rinascere”. Migrare nel linguaggio del cinema per noi ha significato affrontare una nuova sfida, metterci in una condizione di rischio. E allo stesso tempo, una volta riscritto con questa techne differente, il ritratto sullo schermo di Aung San Suu Kyi non ci è sembrato diverso da quello sul palcoscenico: sono due alberi diversi dello stesso giardino, con frutti diversi ma entrambi con la propria necessità. Nel film… sai quando ti dicono “non ti allargare”? Ecco, per me il cinema è stato proprio questo, la licenza di potermi “allargare”. Di rapinare tanta realtà da trasfigurare sullo schermo. Ad esempio, nella prima sceneggiatura compariva solo una bambina, la “maestra” che insegna la storia di Suu: ma poi, quando siamo andati a fare il casting, ci siamo trovati di fronte tutti quei volti magnifici di bimbe saltellanti… ognuna era un mondo! Ognuna, col suo volto, era portatrice del proprio segno. E così le bambine si sono moltiplicate, e tutti quei volti sono diventati il coro delle narratrici.

Il “coro della liberazione” nel vostro epilogo mi ha colpito molto: si festeggia per aver scalato le montagne e – citando ancora una volta Brecht – ci si prepara alle fatiche delle pianure. Vedendolo, sembra quasi di rileggere l’Orestea: dopo tre tragedie gonfie di orrori, si arriva inaspettatamente alla conclusione festosa. «È finita!», grida il coro. Parole che oggi suonano stridenti e forse, proprio per questo, ancora più urgenti ed efficaci, perché si scontrano con la realtà e mostrano come la ferita sia ancora aperta. Cosa ha significato, per te ed Ermanna, ricevere la notizia del nuovo rovesciamento e dell’ennesimo arresto di Suu? Cosa rappresenta adesso, per voi, rivedere il percorso che avete fatto?
Facciamo un passo indietro e partiamo dalle “fatiche delle pianure”. Prima del colpo di stato, ricordi gli attacchi che l’Occidente ha scagliato contro Aung San Suu Kyi in merito alla questione dei Rohingya? E le istituzioni che le revocavano i premi che le avevano assegnato in passato? In quel momento l’Occidente, attraverso i media, invece di scavare in quella situazione complessa di semi-democrazia ancora condizionata dai generali, invece di comprendere la scomoda posizione di Aung San Suu Kyi, ha dimostrato tutta la sua superficialità. Invece di aiutare lei e un intero popolo a compiere una delicata “transizione democratica”, hanno sparato a zero. Indebolendo Aung San Suu Kyi davanti all’opinione pubblica internazionale, hanno inconsapevolmente fatto credere ai generali che era arrivato il momento giusto per riprendersi il potere: c’è una grave responsabilità da parte dei media occidentali nei confronti della Birmania. Hanno fatto con Suu come con Pantani: prima l’hanno esaltata e poi l’hanno tirata nella polvere. I media vivono di capri espiatori: non aspettano di comprendere una situazione, devono scagliare la loro pietra. Fa vendere di più, su questo non c’è dubbio. Sulla questione dei Rohingya ci siamo informati a fondo. La maggior parte delle cose che abbiamo scoperto i media non le hanno mai raccontate: era sufficiente buttare il “santino” nella polvere. Albertina Soliani, un’amica che è spesso in Birmania acconto a Aung San Suu Kyi, ci ha riferito che in risposta agli attacchi Suu citava santa Caterina da Siena: «Preferisco perdere la reputazione piuttosto che la carità». E adesso la situazione è tragica: quasi 1000 morti, 3000 persone arrestate e probabilmente torturate. La Storia si ripete e non si ripresenta come “farsa”, come nella celebre battuta di Marx, no, si ripresenta nuovamente nei panni della tragedia. L’Occidente, che si erge a baluardo della democrazia, cosa sta facendo? Se riponiamo un briciolo di speranza nelle nostre democrazie, dobbiamo chiedere qualcosa di più di qualche dichiarazione di principio. È una questione che va al di là del nostro piccolo film, riguarda le sorti del mondo. E quindi, tornando alla questione iniziale, dobbiamo chiederci: è distante la Birmania? No. La Birmania è qui: siamo noi.

E come può il teatro – il teatro italiano, cioè fatto da persone che vivono a più di 9.000 km dal Myanmar – andare al fondo di questa ferita aperta?
La sfida è sempre quella. Per ciascuno di noi. Per te che hai ventisei anni, come per Brecht e Artaud nel secolo scorso, per Pascal e Molière nel Seicento, fino ai primi Cristiani e, ancor prima, fino a Socrate e Platone: riusciremo mai a costruire una polis in cui “il giusto” non venga messo a morte? La grande filosofia platonica non nasce dalle “idee”: il motivo per cui Platone ha edificato la sua grande cattedrale filosofica è che Socrate, il suo maestro, è stato ammazzato senza che avesse commesso alcun male. La sfida è tutta lì: come possiamo stare in questo mondo senza ammazzarci a vicenda? Quando l’arte non è legata a questo rovello è soltanto entertainment, stupida evasione. L’arte è tale solo quando si colloca davanti all’enigma dell’esistenza, al mistero del nostro essere creature. È una sfida insieme storica, politica e metafisica. Il teatro la affronta con le sue povere armi, con le sue fionde: sa che non può raggiungere milioni di persone, ma con la sua trivella è in grado di scavare un pozzo assai profondo. E non è poco. L’importante è mettere sulla bilancia tutta la propria vita. Ne Gli Intoccabili (1987) di Brian de Palma, in una scena in chiesa, Eliot Ness (Kevin Costner) dice di voler sconfiggere Al Capone, il “Male”, e il vecchio Jimmy Malone (Sean Connery) gli risponde: «Cosa sei disposto a fare?». La domanda è solo quella, vale a 26 anni come a 60. Cosa sei disposto a fare?

A chi conosce il tuo impegno con la non-scuola appare evidente che questa domanda è il filo rosso che attraversa gli aspetti più diversi del tuo lavoro. Riguardo a questa unità, mi è rimasta impressa una frase che hai pronunciato qualche settimana fa in una conversazione con lo scrittore Luca Doninelli, quando sostenevi che non esiste una reale differenza tra teatro sociale e grande teatro di prosa. «La questione – dicevi – è una sola: è accaduto qualcosa oppure no?»
È così. Quando affronto un nuovo lavoro mi scopro sempre pieno di paura ed entusiasmo: è un po’ come il primo amore, che ti tiene il cuore saltellante in petto. Se non fosse così, non avrebbe senso. Beckett ha scritto che l’abitudine è una gran sordina: il rischio più grande è proprio quello di abituarsi alla vita, diventando sordi al suo grido, e non accorgersi più di quello che accade. Bisogna rimanere innamorati.

Gianmarco Bizzarri