Di Nando dalla Chiesa e Marco Rampoldi
con la collaborazione degli studenti del corso di Sociologia della Criminalità Organizzata dell’Università degli Studi di Milano
Regia di Marco Rampoldi
Visto al Piccolo Teatro Studio Melato di Milano – dal 3 al 21 dicembre 2014
A pochi anni dal noto precedente di Giulio Cavalli, che fu fra i primi a denunciare dal palco la mafia in Lombardia, ancora una volta il teatro è in prima linea nell’impegno civile ed educativo.
E io dico no rappresenta il punto d’arrivo del progetto Osservatorio sul presente: legalità, che ha dato vita a sei spettacoli e otto incontri sul tema della legalità, frutto della sinergia fra il Piccolo Teatro e l’Università degli Studi di Milano, sede di presidi antimafia come Unilibera, Wikimafia e il sito Stampo antimafioso.
La drammaturgia – nata dal lavoro di alcuni studenti del corso di Sociologia della Criminalità Organizzata, coordinati da Nando dalla Chiesa e dal regista Marco Rampoldi – ripercorre le vicende della malavita organizzata dagli anni Sessanta ad oggi, soffermandosi sulla sua diffusione nelle aree più dinamiche e ricche del paese.
La scelta è quella di non portare alla ribalta personaggi noti, ma piuttosto ‘tipi’ che ne riassumono le caratteristiche salienti: attraverso dialoghi e monologhi abilmente alternati E io dico no conduce lo spettatore nel cuore del fenomeno della malavita organizzata.
Ad aprire la pièce è lettura di alcuni stralci del dimenticato I Beati Paoli, che immerge il pubblico in una Sicilia fatta di riti di iniziazione e uomini d’onore, tra sanguinarie vendette e atmosfere in stile Il Padrino. Toni e registri cambiano con l’espansione della ‘ndrangheta in Lombardia, che riporta invece agli ambienti claustrofobici di una nordica Gomorra: dai sequestri nella Brianza borghese degli anni Settanta, al traffico di droga, al riciclaggio in attività ‘legali’ e appalti nell’edilizia nella luccicante Milano anni Ottanta, fino ai rapporti privilegiati con la sanità d’eccellenza degli ultimi anni.
Convince la scelta, non scontata, di intervallare l’asciutta cronaca con brani letterari: la peste manzoniana, il Laocoonte dell’Eneide, I mafiosi di Sciascia restituiscono un clima di angoscia senza tempo, mentre Le città invisibili di Calvino suggeriscono un legame con i problemi ambientali di oggi e con i recenti fatti di cronaca.
Su un palco vuoto, fatta eccezione per alcune panche modulari, i cinque attori (Flavio Albanese, Pasquale Di Filippo, Gabriele Falsetta, Sergio Leone, Tommaso Minniti) si calano con convinzione nei vari personaggi con i loro accenti regionali, mentre le proiezioni video di Marco Rossi sono efficaci nel disegnare sul palcoscenico le relazioni fra Lombardia e Calabria, mostrando con evidenza grafica i legami fra ‘ndrangheta, politica, sanità, opere pubbliche, ma anche un’implicita specularità fra realtà apparentemente incompatibili: bene e male, mafia e stato, nord e sud. Nessuno può chiamarsi fuori, ognuno è responsabile in quanto cittadino.
Il coinvolgente monologo finale lascia spazio alla speranza e richiama il titolo: si può anche dire no all’omertà e all’intimidazione. Risuonano le famose parole di Giorgio Ambrosoli (“Qualunque cosa succeda…” titolo della fiction trasmessa in questi giorni dalla RAI) e vengono ricordati Pio La Torre, primo firmatario della legge sul reato di associazione mafiosa, e i tanti senza nome che hanno difeso nei fatti e con la vita quella Costituzione che viene astrattamente dibattuta in Parlamento e disattesa nella pratica da uno Stato che si rivela incapace di tutela.
Un appello efficace alla coscienza civica dello spettatore, alle possibilità del singolo cittadino, alla capacità di ognuno – così nelle parole di Italo Calvino – di riconoscere “chi e cosa non è inferno, farlo durare e dargli spazio”.
Simona Lomolino