Agamennone di Eschilo
regia di Luca de Fusco

Coefore-Eumenidi di Eschilo
regia di Daniele Salvo

Vespe di Aristofane
regia di Mauro Avogadro

Visti nell’ambito del XLX ciclo di rappresentazioni classiche dell’INDA
9 maggio-22 giugno 2014 _ Teatro Greco di Siracusa

Che cos’è, per noi, il coro? Quello, citato nel titolo, di una vecchia pubblicità di Carosello? O il coro greco di giovani attori che in TV faceva eco alle lamentazioni di Bersani-Crozza anni fa, in Crozza Alive?
Qualunque cosa sia, non poteva mancare nell’anniversario del centenario (1914-2014) appena festeggiato dalla Fondazione INDA (già Istituto Nazionale del Dramma Antico). Cento anni non certo “di solitudine”, ma anzi di folla: a Siracusa il più longevo festival di spettacoli classici inaugura il suo cinquantesimo ciclo in un teatro greco doppiamente affollato; è gremita la cavea (le gradinate riservate al pubblico), ma è oltremodo nutrita la massa di partecipanti ai tre spettacoli in programma. A cominciare dai cori in cui, implicitamente, gli spettatori sembrano invitati a rispecchiarsi, almeno nel numero. Nell’antica Atene il coro era effettivamente espressione della città, sia perché composto di semplici cittadini, non professionisti, sia in quanto finanziato da un privato cittadino, ricco e solitamente in vista, che faceva da corego ossia da sponsor (pagando di fatto una tassa, ma non priva di ricadute in termini di prestigio e di clientele politiche).

Tutto questo va tenuto in debito conto da chi rappresenta Aristofane, come vedremo, ma prima ancora Eschilo, che ebbe per corego Pericle ed era famoso per i suoi cori imponenti. In omaggio a lui, che lavorò anche in Sicilia a fine carriera, Siracusa cento anni fa inaugurava i suoi spettacoli classici con Agamennone (1914) e Coefore (1921), prime due parti dell’Orestea. Oggi viene riproposta in due serate l’intera trilogia dedicata agli Atridi (il re di Argo Agamennone, tornato da Troia, è ucciso a tradimento dalla moglie Clitemnestra e del suo amante Egisto; li ucciderà a sua volta, anni dopo, il figlio del re Oreste che nel finale della trilogia, dopo varie peripezie, sarà processato e assolto ad Atene).

Nell’Orestea e in Aristofane, anche se con diverse modalità, il coro è onnipresente. E nella sua resa moderna è, mi pare, rivelatore dei pregi e difetti dell’intera messinscena: un fattore cruciale, quasi l’ago della bilancia nell’equilibrio complessivo dello spettacolo. E se le prime produzioni dell’INDA non lesinavano certo sul coro – a giudicare dai documenti rimasti – qui coreuti e attori-comparse stipano letteralmente la scena allestita da Arnaldo Pomodoro e la parte antistante, detta ‘orchestra’, originariamente riservata proprio al coro. In quest’ultima, ricoperta di terra scura nell’Agamennone, entrano per primi i vecchi coreuti: sepolti e poi dissepolti, a mo’ di zombies o revenants, sono loro a donare all’intero spettacolo un’atmosfera alla Walking dead, o alla Thriller di Michael Jackson, che ‘contagia’ anche il resto (Ifigenia ad esempio, appena nominata nel testo eschileo, appare qui più volte come spettro; Agamennone e Cassandra giacciono in una sorta di tomba scoperchiata, e così via).

Se questa è la cifra più interessante della regia di De Fusco, per il resto molto scarna, il confronto è stridente con Coefore-Eumenidi di Daniele Salvo. Qui l’accumulo di persone, simboli, oggetti scenici raggiunge vette parossistiche, ai limiti del ridicolo. Già di per sé basterebbe a riempire l’orchestra il coro di donne in lutto che nella prima tragedia accompagna Elettra alla tomba del padre: in solenne processione, come nere prefiche, tengono bene la scena dalla parodo (canto d’ingresso del coro) al commo (dialogo lirico tra attori e coro). Ma a onor del vero sono sin troppo debitrici, fin nei minimi gesti, a Coefore – Appunti per un’Orestiade italiana (regia di Elio De Capitani e musiche di Giovanna Marini, Teatridithalia, Milano, 1999). A parte questo non sembra aver nulla da dire il coro nel resto di Coefore e soprattutto in Eumenidi, anche rispetto a precedenti allestimenti di quest’ultima tragedia, come quelli dello stesso De Capitani (2000), di Antonio Calenda a Siracusa (2003), di Vincenzo Pirrotta (2004).
Qui le dee Erinni, antichi demoni della maledizione materna, prima appaiono tra cortine di fumo – un po’ scheletri un po’ gruppo dark-punk, in stile musical giovanilistico – poi vengono sommerse da torme di comparse: danzatrici, guardie armate, portatrici di scialli purpurei, giudici incaricati di processare Oreste. Anche questi ultimi, nerovestiti e muti servi di scena, scendono dalla cavea, a rappresentare simbolicamente il pubblico, ma esauriscono in fretta il loro compito e poi occupano la scena fino alla fine come ingombrante ‘tappezzeria’.

Se le Eumenidi si chiudono con un verdetto di assoluzione, per Oreste, la sera dopo troviamo giudici molto meno benevoli nelle Vespe di Aristofane dirette da Mauro Avogadro: sono loro – ancora una volta il coro! – a dare il titolo alla commedia e a determinare la riuscita dello spettacolo, ben più di quelli precedenti. I vecchi giurati in buffi costumi a strisce (paragonati da Aristofane a vespe per la loro aggressività) escono dalle celle di un gigantesco alveare che fa da sfondo all’orchestra. Tra loro molti attori di prim’ordine, tra cui Francesco Biscione che si conferma versatile capocoro comico, oltre che tragico.
Il coro dà corpo e senso alla vicenda ‘privata’ di un padre e figlio che in realtà ci parla dei processi dilaganti ad Atene, e fomentati dal leader della democrazia radicale, Cleone: di qui il nome dato ai due protagonisti Vivacleone, il vecchio giudice maniaco dei processi, e Abbassocleone il figlio che cerca di guarirlo. A interpretarli rispettivamente Antonello Fassari e Martino D’Amico, nelle vesti di attore comico e ‘spalla’, ben supportati da un’altra coppia comica: Sergio Mancinelli (Sosia) e Enzo Curcurù ( Santia) ossia i due servi che nel prologo aristofaneo hanno il compito di introdurre la storia e ‘scaldare’ il pubblico, qui giustamente con opportune battute aggiunte ad hoc.

Attori e coro, già di per sé ben diretti e affiatati, sono ulteriormente valorizzati da una strepitosa Banda Osiris – anch’essa in giallo e nero – che dà il meglio di sé con canti e fiati dal vivo. Come già la scorsa edizione siracusana delle Vespe (nel 2003, anch’essa seguita a Eumenidi) le musiche sono la parte più originale dello spettacolo: il testo opportunamente adattato da Alessandro Grilli, insieme con lo stesso regista, offre lo spunto per inserire citazioni di canzoni ben note, melodie pop travestite e perfino squarci lirici: l’idea più originale, e premiata da applausi calorosi, sono gli assoli da soprano di Adonai Mamo, straordinario servo cantante, che modula a richiesta “O mio babbino caro” e altri celebri arie d’opera con le parole adattate al testo. L’atmosfera gioiosa e scanzonata creata da questo ensemble non solo alleggerisce la seconda parte della commedia e il finale di una certa grevità, ma dona un tono ironico e farsesco anche all’episodio più satirico e serio della commedia: il processo per furto intentato a due personalità in vista dell’Atene del tempo (che Aristofane raffigura, per allegoria, come due cani).

Come notava Maddalena Giovannelli a proposito delle splendide Donne al Parlamento di Pirrotta, applaudite l’anno scorso a Siracusa (la recensione è apparsa su Stratagemmmi), la satira ad personam è uno dei nodi più dibattuti per la resa scenica di Aristofane, ed è sempre difficile trovare e mantenere il giusto equilibrio tra attualizzazione e fedeltà al testo. Qui non si traspone nulla nel presente in modo esplicito, e non viene inserito nessun nome proprio di oggi. Ma è impossibile non pensare agli arresti che in questi stessi giorni affollano le pagine della cronaca, da Scajola a Greganti ad altri soliti noti.
Anche per questo la commedia ci sembra offrire, da tempo, quanto di meglio si possa vedere a Siracusa (almeno a partire dalle contestate Rane di Ronconi, nel 2002): se già l’antica polis si specchiava nel suo teatro,  e nella lente deformante della commedia, Aristofane ancora oggi restituisce alla cavea un riflesso che non fa sconti, e in cui non possiamo – anche a forza e nostro malgrado – non riconoscerci.

Martina Treu