Uno spettacolo di Macelleria Ettore _ teatro al kg
Testo e regia di Carmen Giordano
Visto al Teatro Ringhiera di Milano_ 22-23 novembre 2013

“Elettra… c’est moi”. Questo, parafrasando Flaubert, potrebbero dire molte giovani donne di oggi. Non necessariamente in lutto e assetate di vendetta, come la figlia di Clitemnestra e Agamennone, ma per certe caratteristiche (in parte condivise con Antigone) in cui molti di noi si riconoscono o si sono riconosciute: l’ostinazione a contrapporsi agli adulti, l’orgoglio di essere ‘diversa’, l’auto-isolamento, il senso di perpetua estraneità e non-appartenenza che diventa un vessillo, e un’armatura.
Non a caso la sua storia è l’unica in tutto il teatro greco di cui abbiamo tre versioni d’autore, una per ogni drammaturgo: Eschilo con le Coefore, la tragedia centrale dell’Orestea; poi Sofocle e Euripide, ciascuno con una tragedia intitolata appunto Elettra. Qui, e nelle riscritture seguenti, Elettra subentra al fratello come protagonista: implacabile accusatrice degli assassini del padre (la moglie Clitemnestra e l’amante Egisto) vive letteralmente per vederli morire: è lei, sostanzialmente, a guidare la mano di Oreste nel matricidio. Questa è la carica eversiva che il mito porta in dote alla modernità.

La ritroviamo nello spettacolo di Macelleria Ettore con tutta l’energia e la vitalità di un personaggio nuovo, inedito, che pure ha sulle spalle due millenni e mezzo di riscritture. Infatti il gruppo teatrale (recita la locandina) “ricerca il proprio linguaggio nell’Opera, nella Tragedia, nel Mito”. E ancora: “La musica è atmosfera e sostanza dell’opera. La musica è Elektrika. Elettronica. Techno. Live. La musica è nella testa di Elektra. Ascoltiamo la sua musica. La sua tragedia. La sua verità. Elektrika è una ricerca tra l’arcaico e il futuribile. Un linguaggio nuovo di secoli fa”. Il progetto è chiaro, e di semplicità solo apparente: sin dal nome, Elektra, recupera la sonorità originale del greco; e rinuncia a smussare gli spigoli, come fa la protagonista. Il collettivo artistico Macelleria Ettore dà vita a una eccellente sinergia di due attori e coro, come la tragedia greca delle origini: un impasto ben amalgamato di testo e musica, corpi e voci, suoni e visioni.

Carmen Giordano, Chiarastella Calconi e Maura Pettorruso sono rispettivamente regista e autrice del testo la prima, coro, live electronics e autrice delle musiche la seconda, straordinaria interprete di Elettra la terza. Completano il cast Stefano Detassis (Oreste) e le voci di Clitemnestra e Egisto – fuori scena – più il fondamentale apporto di Maria Paola Di Francesco (scene e costumi). Carmen Giordano scandisce la trama sin dalla morte di Agamennone (spiata dai due figli) con poche parole efficaci, asciutte e dense, che si sposano bene alla musica (vera anima del testo, come i corali tragici, composta e interpretata magistralmente da Chiarastella), all’impressionante apparato scenico, alla precisa e calibrata coreografia. L’insieme è paragonabile a un meccanismo a orologeria, un balletto di automi che girano su un carillon.

Perno dello spettacolo, immobile su una pedana circolare rotante, Elettra è la puntina del giradischi. Da lei si dipanano, per cerchi concentrici, lo spazio della performance e la musica stessa. Attorno a lei una struttura metallica sorregge da una parte una consolle da dj, con Chiarastella, e a far da contrappeso Oreste: idealmente legato a Elettra ancor prima di tornare da lei, sempre fisicamente vicinissimo ma mentalmente distante. I bei costumi rivisitano liberamente i modelli greci per Oreste (armatura e cresta dell’elmo in versione punk-metal futuribile) e per Elettra trucco ‘metallizzato’ e nero d’ordinanza da capo a piedi: tutù da ballerina, con corpetto fluorescente, scarpe Converse All Star alte, un laccio elastico che le avvolge a spirale le gambe nude, e le costringe a pose innaturali (come la quarta posizione della danza classica): così “l’estetica del dolore” e del lutto mescola fascino arcaico e postmoderno.

Plausibile e convincente, ma anche coerente con l’originale, l’immagine cui dà corpo l’eccellente attrice: “Emotivamente instabile. Problemi relazionali e disturbi del comportamento…” così la descrive la prima didascalia, cantata a turno da coro e attori e ripresa dai led luminosi sulla consolle, durante lo spettacolo. Così visivamente si traduce il leitmotiv che percorre testo e la musica, nella partitura complessa che guida in modo ineccepibile voci e movimenti sincronizzati degli attori. I ritmi modulari ripetuti con variazioni scandiscono la vicenda (come i canti corali e gli episodi tragici). La techno è perfetta per Elettra, prigioniera dei suoi pensieri di vendetta, dei suoi gesti ossessivi-compulsivi, nell’attesa che la consuma in giorni sempre uguali. Ma anche per Oreste, che cerca lo “sballo” in discoteca, ha nostalgia per una casa che non ricorda, ha lo sguardo fisso quando racconta di sé, quando rivede Elettra, quando “passa dall’essere un bambino a serial killer” (così recita la didascalia): si ritrova la pistola in mano, spara ai suoi (come già prefigurato dal coro a inizio dramma). Dopo il matricidio la situazione non migliora. Anzi. Cala il silenzio. I due fratelli sembrano non sapere che fare. Senza musica, senza uno scopo, non sono “niente” (così finisce il testo: “Chiudere gli occhi e farsi portare /ballare ballare ballare /come acqua corrente / non pensare più a niente”). La musica li avvolge e li sovrasta. Così, se il lutto rimane primo segno distintivo delle riscritture del mito (si veda O’ Neill, “Mourning becomes Elektra”, 1931), oggi possiamo aggiungere, a buon diritto: anche la techno si addice a Elettra.

Martina Treu