di Maddalena Mazzocut-Mis
regia di Alessia Gennari
Produzione ArteVox
visto al Teatro Elfo Puccini di Milano _5-9 novembre 2013

Elena: un nome, un destino. L’Elena del mito, causa della rovina di Troia, secondo un’etimologia antica avrebbe già nel nome il verbo ‘distruggere’. Fa onore al suo nome, e al personaggio – incarnazione della bellezza – l’incantevole attrice Elena Russo Arman. Lei, di Elena, si fa ‘eidolon’, ‘fantasma’, doppio o replicante, come quello che va a Troia con Paride secondo una versione ‘alternativa’ del mito (si veda l’Elena di Euripide). Il personaggio si specchia nella sua omonima in carne e ossa: seduttiva e perversa, suadente e crudele, tangibile e carnale, fasciata nel lungo abito nero da sera che ne mette in risalto il candore della carnagione, le spalle e le braccia nude (si vedano le fotografie e il promo sul sito dell’Elfo).

Lei è, semplicemente, Elena. È il personaggio antico e il suo ‘doppio’ moderno. A circondarla, in scena, i simulacri degli altri personaggi: Paride, Menelao, Ermione. È la stessa Elena a dar loro voce, con la bravissima Sara Urban e con una marionetta e alcuni vestiti, appesi in scena e ‘animati’ all’occorrenza. Ma il vero ‘fantasma’ di questo spettacolo è, per noi, il coro: massimo simbolo della distanza fra teatro antico e moderno (come ricorda T.S. Eliot a proposito delle Erinni), e punto dolente di molte – troppe – rappresentazioni classiche, in questo caso è una presenza efficace, incombente seppure impalpabile: l’ensemble vocale Calycanthus rimane in scena per tutto lo spettacolo, dietro un velo bianco, trasparente. Muto e immobile, nell’ombra, si anima a tratti per cantare i cori composti dalla stessa drammaturga, Maddalena Mazzocut-Mis, su musiche originali di Azio Corghi. Le loro parole, ma prima ancora la loro costante, silenziosa condanna, ci richiamano alla mente la più acerrima nemica di Elena: Ecuba. La regina di Troia, che ha perso in guerra non solo Paride, figlio perduto e ritrovato, ma quasi tutti gli altri: il loro numero iperbolico fa di lei la madre per eccellenza.
E proprio la maternità ci pare una delle chiavi di lettura più interessanti di questa riscrittura, proprio perché normalmente non si associa al personaggio di Elena. Moglie infedele e madre snaturata, come sottolinea la stessa Ecuba nelle Troiane; lei, per seguire il bel Paride a Troia, ha abbandonato il marito Menelao e la figlia Ermione ancora bambina. Elena nelle Troiane dà la colpa ad Afrodite, dea dell’amore, ma sia nella tragedia antica sia in questa ‘tragedia lirica’ moderna si rivela, in realtà, incapace di amare altri che se stessa.

Qui sin dall’inizio Elena si giustifica continuamente, di fronte al coro e soprattutto al pubblico: guarda in faccia gli spettatori e si difende come se fosse in un processo. Si dice schiava della sua bellezza, quasi vittima, e trova ogni pretesto plausibile per i suoi tradimenti: il poco amore dimostratole da Menelao, la noia della vita di provincia, l’irrequietezza, l’insoddisfazione costante (“Non ho mai saputo quando fermarmi: è una colpa?”). Ai vestiti appesi, ai fantasmi del passato, anche al pubblico si rivolge in modo seduttivo. Esercita quasi meccanicamente, involontariamente e inconsapevolmente, la sua unica arma: la seduzione. Una coazione a ripetere da cui non riesce a liberarsi, un comportamento ossessivo che non riesce a controllare, e che è in un certo senso la sua eterna condanna.

Ed è questo, forse, il tratto più distante dall’altra riscrittura moderna che per molti altri aspetti ci sembra ‘madre’ di questa: l’Elena di Ritsos, dalla raccolta Quarta Dimensione, di cui ricordiamo la bella interpretazione di Elisabetta Vergani (al Teatro Verdi di Milano nel febbraio-marzo 2010). L’Elena di Ritsos, benché decrepita e invalida, si professa finalmente libera da quella vera e propria schiavitù della bellezza, e ossessione della giovinezza, che attanaglia sempre più donne e uomini del nostro tempo: se la sensazione di libertà era palpabile in quel testo, e rendeva ‘leggere’ le ultime parole di una moribonda, al contrario questa Elena ancora giovane e bella ci appare via via una Madame Bovary in declino, una povera infelice prigioniera del proprio ruolo di seduttrice. Non innamorata di Paride, ma del fascino e del potere che esercita su di lui. E dunque destinata a disilludersi presto, non appena gustata la conquista. E non ha difficoltà a riconquistare Menelao, una volta tornata a casa, ma è mossa solamente dall’istinto di sopravvivenza, di autodifesa. Ed è perfino patetica nel suo ruolo di madre, che dispensa consigli di bellezza non richiesti alla figlia Ermione. Quest’ultima, personaggio minore nel mito, qui nella riscrittura acquista uno spessore notevole, ancora una volta nella chiave sopra citata della maternità.

La peggior sventura che possiamo immaginare, per un’adolescente, è essere figlia di Elena. Inevitabilmente esposta al confronto, alla competizione, alla rivalità con una madre a cui non può neppure lontanamente paragonarsi. Ermione, com’è prevedibile, non ci prova nemmeno e di proposito si lascia andare, non si cura né si valorizza. Quando si invaghisce di un coetaneo, Oreste, questi viene sedotto proprio da Elena (e la loro improbabile avventura, raccontata dalla stessa Elena, ripete lo stesso schema della fuga d’amore, con Paride, che apre lo spettacolo; ma rispetto a quella è chiaramente un disperato tentativo di mantenersi giovane e sessualmente appetibile). La storia con Oreste non fa che allontanare ulteriormente madre e figlia: Ermione è rappresentata qui da una marionetta molto essenziale, dai tratti appena accennati, sospesa a un filo (una scelta efficace che ha caratterizzato altri spettacoli già recensiti su questo sito: La semplicità ingannata di Marta Cuscunà, che tornerà al Verdi dal 22 al 26 gennaio 2014,  e la straordinaria Antigone di Ulrike Quade e Nicole Beutler).

Non possiamo non provare pietà per quest’infelice creatura, sballottata e lasciata dondolare inerte: forse morta di anoressia, o per impiccagione, o più semplicemente spenta in una non-vita, all’ombra della madre. Nell’ultima lettera Ermione rimprovera il padre di non averla saputa proteggere, perché prigioniero della donna-mostro che alla sua bellezza ha sacrificato tutto e tutti, perfino se stessa. E nel novero delle vittime di Elena questa riscrittura aggiunge, con felice intuizione, la famiglia di Paride: una moglie e un figlio invalido che il padre abbandona, fuggendo. Non tanto per amore di Elena, ma per viltà, per non affrontare la sofferenza e la morte.
A loro allude per prima la stessa Elena, che durante la fuga con Paride legge un titolo sul giornale: donna si butta dal balcone col figlio malato. Inevitabile il cortocircuito: mai nominata, eppure inequivocabile, la moglie di Paride si fonde con Medea, abbandonata dal marito per un’altra donna e assassina dei suoi stessi figli. Può sembrare una forzatura, a prima vista, ma il suo personaggio si costruisce pian piano e diventa sempre più credibile, grazie a Sara Urban che tiene stretto un cappottino da bimbo, appeso a una gruccia. Prima di immaginarli nel vuoto, abbracciati, l’abbiamo vista imboccare il figlio, rispondere pazientemente alle sue domande sul padre assente, mentirgli per amore adducendo pretesti, ascoltare basita al telefono Menelao che le getta in faccia la verità, e infine prendere la decisione più difficile: non una fuga dalla sofferenza, come quella di Paride, ma la scelta di porvi fine.
Così a Elena e alle sue scelte di ‘anti-madre’ e rovinafamiglie (le stesse che le rinfacciava Ecuba), si contrappone implicitamente una madre. E anche qui Elena, come con Ermione, non può che perdere. La maternità si conferma filo conduttore, e scelta vincente, di questa nuova riscrittura del mito.

Martina Treu