Irruzione della realtà nella composizione drammaturgica e re-enactment. Quale pensa possa essere la specifica valenza di queste operazioni in ambito artistico e, in particolare, teatrale?
Bisogna dire che il concetto di “realtà” è di per sé molto controverso. Noi viviamo in un mondo in cui le cose futili non cessano per questo di essere reali, e attribuire un grado di realtà significativo a un fenomeno è pur sempre, artisticamente, un arbitrio. Quello che deve sempre irrompere nel nostro lavoro non è necessariamente la realtà, ma la possibilità.
Sempre più spesso vengono coinvolti nella rappresentazione teatrale attori non professionisti. Qual è la sua posizione a riguardo?
Pasolini ha lavorato benissimo con attori non professionisti e andrebbe studiato il suo metodo. Però il cinema ha due strumenti peculiari, l’inquadratura e il montaggio, per non parlare delle possibilità “riparatorie” del doppiaggio, che in teatro non esistono. Empiricamente, tra professionisti e non professionisti ho spesso constatato la presenza di una terza categoria, che sono gli allievi delle accademie e delle varie scuole, vale a dire persone in via di formazione, in transito da una condizione all’altra. Bisogna sempre ricordare che il teatro è più difficile del cinema da questo punto di vista. Se hai ruoli di un certo tipo, per esempio con un imponente ricorso alla memoria, non c’è niente da fare, devi scegliere non dico un professionista in senso assoluto, ma qualcuno che ha studiato delle tecniche. Penso a uno spettacolo recente, per fare un esempio tra mille, che ho scritto per la regia di Massimo Popolizio, Ragazzi di vita. È inconcepibile tutto il progetto senza Lino Guanciale, senza il suo “mestiere”.
Portare il teatro fuori dai luoghi convenzionali dove normalmente si pratica, può servire ad avvicinare il pubblico?
Personalmente nella vita ho visto spettacoli meravigliosi fuori dai teatri. Sull’avvicinare il pubblico non saprei bene cosa pensare, non ho idea di questo aspetto del mestiere perché come drammaturgo svolgo un ruolo che non mi porta mai a diretto contatto con il problema. In genere, anche come scrittore, di quanto vendono i miei libri non mi importa nulla. Quello che ho imparato della vita è che il pubblico meno lo cerchi e più lo trovi.
Mirando a ridefinire ruoli e compiti del teatro contemporaneo, Milo Rau nel suo Manifesto di Gent sostiene che «L’adattamento letterale dei classici sul palco è proibito». E che «Se un testo sorgente — sia esso letteratura, cinema o teatro — è utilizzato all’inizio del progetto, può occupare solo al massimo il 20 per cento del tempo di esecuzione finale». Cosa ne pensa?
Devo dire che io mi occupo principalmente di testi non teatrali per le scene, nel solco del lavoro di Luca Ronconi che ha allargato immensamente l’idea stessa del “repertorio” teatrale, estendendolo a una pluralità di generi letterari. La sfida è non cambiare nemmeno una virgola, ma fare di un testo nato per la lettura un testo teatrale. Il mio credo morale in questo lavoro è molto semplice: io odio il concetto di “adattamento”, non cerco mai di sottomettere alla natura del teatro un elemento estraneo, ma di liberare ciò che in un romanzo, in un saggio, in un poema mi sembra far già parte dell’espressione teatrale. Perciò non capisco quella percentuale del 20%, io tenderei al 100%! Non mi interessa una “sorgente” ma un fiume da seguire fino alla foce.
In generale però il Manifesto di Gent la trova d’accordo?
Non sono d’accordo sul punto 2. Noi siamo artigiani, e per fare le cose bene sbagliamo, litighiamo, ci mettiamo a piangere, poi fumiamo una sigaretta e ricominciamo, finché abbiamo ottenuto il massimo da noi stessi. Poi c’è la sera della prima, e lì mostriamo quello che siamo stati capaci di combinare. Non ha nessun senso mostrare il processo. Almeno per come lavoro io non si può fare: immagino il pubblico come un elemento potenzialmente ostile, e questo mi serve a fare del mio meglio, a stare attento, a non cercare scorciatoie. Poi uno si gioca la partita e si prende gli applausi o i fischi, ma non si possono fare trucchi, è lo spettacolo che va giudicato. Con le premesse ci si auto-assolve molto facilmente e si creano dei criteri preventivi di leggibilità dell’opera che sono sempre insidiosi, e, a volte, autoritari.
Intervista raccolta da Chiara Mignemi e pubblicata nelle pagine di Stratagemmi 40 – Intorno a Milo Rau che potete acquistare qui