Emilia, in questa versione italiana dell’originale argentina, gode della presenza sul palco, per oltre 100 minuti filati, della sempre sorprendente Giulia Lazzarini che monologa, dialoga, apostrofa, si chiude in mute riflessioni con sensibilità e arte totali. Il suo personaggio, così interpretato, regge la scena, svolge trama, supplisce dove la regia non arriva, sorregge le altre figure, colma i vuoti, suggerisce emozioni. Seguirla è un viaggio, non ci si pente. Anche se la strada indicata dal regista e autore Claudio Tolcachir non è sempre lineare o abbastanza profonda. Probabilmente, come scrive anche Renato Palazzi, la trasposizione al di qua dell’oceano contribuisce a far perdere spessore all’operazione, lasciando indietro un po’ di quel realismo magico che del Sudamerica è cifra interpretativa e che la compagnia italiana trascura: chissà se per mancanza di direzione o di mezzi.
Siamo in un interno borghese, dove valgono più le azioni più che le parole, i  rapporti sono compromessi, inequivocabilmente  falsificati. Tolcachir lavora a un buon testo che riprende modi e temi cari alla produzione novecentesca, e li lascia liberi di andare verso una reinterpetazione a tratti più fragile, ma, come dicevamo, simbolica e suggestiva. Siamo tutti stati qualche volta una Carolina, compagna confusa che mente a se stessa; oppure Walter, insicuro cronico incapace di comunicazione autentica; o anche Leo, adolescente che fatica a fare i conti con la vita vera; o ancora Gabriel, fantasma di un passato che non vuole cancellarsi. E tutti vorremmo aver avuto un’Emilia, una paladina del bene a tutti i costi, rappresentazione di quell’amore incondizionato –  attivo e passivo – che l’età adulta lava via con le sue asperità (o esperienze).

Sul ring della vita – qui simboleggiata da un trasloco in una nuova casa, ancora estranea e respingente – tre famiglie immaginate come tali (una che non c’è più: quella di Walter, tenuto a balia da Emilia; quella di Carolina e Gabriel, che non è mai veramente nata nonostante l’arrivo di un figlio; quella di Walter e Carolina, che poteva esistere ma è crollata sotto il peso delle bugie) si scontrano e si autodistruggono. Ci si leggono suggestioni da maestri come Eduardo, con le sue riflessioni sulla difficoltà dei rapporti, sui non detti, sulle messe in scena della vita (meno vera del teatro). C’è anche Tennessee Williams, con il suo languido e potente inno alle pulsioni sopraffatte o nascoste. Tornano echi da Carnage, che su questi stessi binari ha costruito un’operazione di successo, al cinema e in teatro. Tolcachir gioca poi con un finale da noir, non risolutivo, quasi confortante.
Tutto funziona più o meno, con qualche lungaggine nella parte centrale, e con tutti gli attori impegnati in un grande sforzo, oltre che di interpretazione, anche emozionale. Forse troppo. Che sia un escamotage per colmare quei chiaroscuri (necessari) che l’autore non ha invece sviluppato? Certo sulla resa ci sarebbe da lavorare, se non di profondità, almeno di sottrazione. Sui gesti, nello spazio occupato in scena, nei respiri. Si può sempre togliere, se c’è qualcosa da far vedere. Potrebbe essere questo il caso, quando non c’è la dolce e spietata balia Emilia a dominare la scena.

Francesca Gambarini

Emilia
scritto e diretto da Claudio Tolcachir
visto al Piccolo Teatro Grassi di Milano_dal 17 al 29 ottobre 2017