Riscoprire il valore delle parole nascondendole: è questo l’obiettivo che Emilio Isgrò, artista e scrittore, si prefigge attraverso le sue “cancellature”, che l’hanno reso noto per aver demitizzato istituzioni culturali come i grandi classici italiani e l’Enciclopedia Treccani.
In occasione di Tempo di Libri Isgrò si racconta attraverso le sue opere, mettendo in luce come la sua idea non sia nata per essere dissacrante, polemica e aggressiva, ma piuttosto per evidenziare, nel mondo in cui l’immagine sembra avere la meglio, come la parola vada recuperata e rivalutata.
Oggi a Tempo di Libri si parla di ribellione: che cosa significa per lei questa parola?
Io sono più per le rivoluzioni che per le ribellioni. Le ribellioni sono dei momenti d’impeto che segnano l’istante in cui i vecchi meccanismi sociali non reggono più. Le rivoluzioni sono le riflessioni che si fanno in un momento di rottura di un paradigma per costruire una società migliore.
Lei ha detto che in questa società “non si capisce più dove finisce l’immagine e dove inizia la parola”. Quindi l’immagine è nemica della parola?
Dovrebbero essere complementari, però mi pare che troppo spesso l’immagine abbia finito per travolgere la parola. Questo non è un bene perché c’è indubbiamente una forza comunicativa nell’immagine, però una volta compreso il significato bisogna riflettere. E solo la parola ci può aiutare a farlo.
Si è occupato anche di teatro: in questo contesto come si legano le parole e le immagini?
Le parole nel teatro si legano con le immagini nella maniera più naturale possibile, perché la parola teatrale è già una parola fatta per vedere. Il teatro si vede e la parola si vede, con una facilità estrema.
Lei nel suo lavoro artistico cancella la parola, a teatro la reinterpreta. Perché?
Perché non bisogna intendere la cancellatura come un gesto assoluto, quando invece è capace di relativizzarsi con il resto della comunicazione. Nel cancellare io preservo la parola. Nel teatro io l’ho fatta rifiorire potentemente. Quando io uso la parola, nei romanzi, nelle poesie o nel teatro, sono cancellature di cancellature: cancello la cancellatura.
Quindi la riscrittura di un grande classico del teatro può essere intesa come una nuova cancellatura?
Certamente! L’Oristea di Gibellina era la cancellazione di una tradizione teatrale un po’ magniloquente perché scritta in siciliano. Allo stesso tempo era la cancellatura delle mie cancellature precedenti. Inoltre lo spettacolo fu messo in scena nei territori del terremoto dove era avvenuta una cancellatura degli spazi esistenti. Quindi la cancellatura di soppiatto o direttamente entra sempre nel mio lavoro. Io ho cancellato Eschilo!
La parola in questa società può ancora comunicare?
Certamente. Grazie alle nuove tecnologie incominciamo ad abbattere le barriere linguistiche.
Le cancellature hanno lo scopo di far sentire che la parola umana esiste ancora, coperta. Non è un gesto distruttivo, tutt’altro. È chiaro che ha anche una funzione di shock, perché la gente si avvicina e riflette.
Lei è arrivato a Milano nel 1956: l’ha descritta come una città molto accogliente, molto aperta per gli artisti. È ancora così o la situazione è cambiata?
Credo che lo stia ridiventando. Per molti anni non è stata più così, perché gli artisti italiani ed europei non avevano più fiducia nelle loro capacità. Noi speriamo che ritorni ad essere accogliente come quando sono arrivato io. Era il secondo dopoguerra e noi viviamo in un clima simile a un dopoguerra, con molte incertezze e in un mondo di macerie. Ma c’è molto spazio per voi giovani: non ribellatevi soltanto, incanalate la vostra ribellione in una visione diversa e più ampia della realtà.
Lavinia Meda e Antonietta Pirchio
Questo contenuto è parte del laboratorio Fuori_riga, osservatorio critico su Tempo di Libri, a cura di Stratagemmi Prospettive Teatrali.