Una cucina, un tavolo, e quattro narratori che condividono con il pubblico le loro storie. Potrebbe essere descritto così Empire, lo spettacolo di Milo Rau che chiude la trilogia dedicata al tema dell’Europa (dopo The Civil Wars, e The Dark Ages), in prima nazionale al Festival Contemporanea di Prato.
In scena il greco Akillas Karazissis, la rumena Maia Morgenstern, i siriani Ramo Ali e Rami Khalaf: ognuno di loro ha una storia vera da raccontare, una storia di abbandono e di esilio. Eppure – ne siamo consapevoli dal primo istante in cui entriamo in sala – nulla è come sembra proprio perché tutto è mostrato per come è: “questo non è teatro documentario”, sembra dichiarare magrittianamente Milo Rau, mostrandoci un saggio di teatro documentario.

In Empire è facile riconoscere i leitmotiv che segnano la poetica del regista e autore svizzero: l’opposizione dialettica tra la verità costitutiva del racconto biografico, e la dimensione finzionale connaturata alla performance; l’urgenza di affrontare in modo diretto alcuni cruciali snodi storico-politici; l’indagine sulla natura del video come dispositivo straniante e, allo stesso tempo, iper-realistico.
Ma questo ultimo lavoro sembra per certi versi portare alle estreme (e raffinatissime) conseguenze la riflessione di Rau sulla forma, e sui paradossi di senso che il codice teatrale genera.

In questa prospettiva è assai significativo che i quattro ‘testimoni’ di Empire siano anche attori professionisti: allo spettatore vengono raccontate da un lato le peripezie storico-biografiche (l’odissea dei due rifugiati siriani; la formazione di Maia sotto Ceausescu; la fuga dal regime dei colonnelli di Akillas), dall’altro la storia delle quattro vocazioni teatrali e delle rispettive esperienze artistiche. Il ‘mestiere’ dell’attore viene dunque messo sotto i riflettori proprio nello stesso istante in cui se ne negano le caratteristiche identificative: gli attori non fanno finta di essere altro da sé, né – almeno apparentemente – attingono al repertorio tecnico degli interpreti per raccontare la loro vita.
Non solo: Empire presenta uno stratificato gioco di rimandi alla struttura teatrale classica, e più in generale alla letteratura greca, che si contrappongono alla natura apparentemente fluida e spontanea del racconto.  La scenografia di Anton Lukas lavora in profonda sintonia con questo doppio piano: da un lato disegna una cucina realistica, con fotografie e caffettiere, ad accompagnare un racconto dalla dimensione quotidiana; dall’altro mostra una gigantesca porta girevole che sembra quasi ricordare l’antica skenè (sulla quale vengono proiettati per tutta la durata dello spettacolo i volti dei performer).

La narrazione viene articolata, con una scansione volutamente ‘artefatta’, in cinque atti che rievocano gli episodi della tragedia antica. I cinque capitoli (Teoria delle origini, Esilio, Ballata dell’uomo comune, Sul lutto, Ritorno a casa) portano poi l’eco dei racconti omerici: ognuno dei quattro attori, come un novello Telemaco, si sofferma sul rapporto con il padre e sulla perdita di questo; elementi costitutivi delle quattro parabole esistenziali sono il viaggio, la morte di una persona cara e l’accettazione del lutto (proprio come Achille apprende il dolore con la perdita di Patroclo); il nostos rappresenta per i quattro protagonisti un momento gioioso e sospirato, ma coincide allo stesso tempo con una dolorosa presa di coscienza di ciò che lo ha preceduto.

I richiami alle origini del teatro si fanno qua e là ancora più espliciti: Maia e Akillas ‘recitano’ le battute di Medea e Giasone, e Akillas fonde le immagini del proprio ritorno a casa con quello di Agamennone (e immagina di farne un film, à la Angelopoulos). Si tratta di momenti straordinariamente toccanti, dove l’esposizione colloquiale e in understatement degli attori fa incendiare per contrasto il potenziale patetico del testo tragico, e dove sembra che le schegge di esistenza degli esseri umani sul palco nutrano e rimettano in vita i fantasmi della tradizione. A cosa servono i classici se non a darci forme e parole per raccontare le tragedie contemporanee? E in che modo la nostra Europa di diaspore e regimi ha ricordato le sue radici condivise e ne ha fatto uso?

Ramo Ali, finalmente tornato in Siria, piange sulla tomba del padre come Oreste sulla tomba di Agamennone: ma è tardi ormai, Ramo era lontano da casa quando tutto è accaduto. “Spegni la telecamera”, prega guardando dritto un regista invisibile: non c’è spazio per la finzione quando si affronta la morte.

Maddalena Giovannelli

EMPIRE
testo e regia di Milo Rau
Visto al Fabbricone di Prato nell’ambito di Contemporanea Festival _ 23-24 settembre 2017