Racchiuso in un quartiere grigio e residenziale ai margini di Varese, in una periferia che quasi si confonde con il verde circostante, si colloca lo Spazio Yak; l’associazione culturale Karakorum Teatro è anima di questo luogo nonché partner del progetto En Plein Air. È qui che la realtà varesina ha ospitato un incontro per discutere delle interazioni tra arte, comunità e spazio pubblico: un hackathon, come i promotori di En Plein Air definiscono i momenti di riflessione, prendendo il prestito il lessico informatico per suggerire un momento in cui varie professionalità intraprendono un dibattito stimolante intorno a una problematica. 

Intitolato A regola d’arte, l’incontro che ha avuto luogo è una delle tappe del percorso intrapreso dalla compagnia volto a costruire un linguaggio comune tra i progettisti di spazi culturali e coloro che, quegli stessi spazi, hanno il compito di abitarli attraverso una proposta artistica. A partecipare all’intensa mattinata di lavori sono stati infatti addetti ai lavori di ambiti differenti: architetti specializzati in pianificazione urbanistica, membri della community di Spazio Yak, rappresentanti di Legambiente, operatori culturali nonchè l’assessore alla cultura della città di Varese Enzo Rosario Laforgia. 

foto: ufficio stampa

Il rischio di sconfinare in discussioni sterili e lontane dalla prassi è stato arginato dal fatto di essere ospitati in un luogo esemplare per le buone pratiche della rigenerazione urbana. Spazio Yak è infatti una realtà polifunzionale coraggiosamente inserita in un contesto decentrato, animata dal sogno di costruire una comunità in un deserto di indifferenza e cemento. Ci troviamo infatti nel quartiere Bustecche, in origine un complesso di case popolari per gli operai della zona, che non è mai riuscito a liberarsi della sua funzione esclusivamente residenziale. Ancora prima della difficile sfida della pandemia, Spazio Yak già progettava interventi mirati a offrire un’alternativa culturale al placido silenzio della periferia. «Quando abbiamo dovuto fronteggiare l’arrivo del Covid il progetto aveva già posto in essere i suoi obiettivi e ci siamo accorti con sorpresa che avevamo anticipato temi che oggi sono diventati di grande attualità!» ci confida il direttore artistico Stefano Beghi a margine dell’incontro.

Un breve e consistente supporto teorico è stato fornito dall’intervento online di Grazia Concilio, docente del Dipartimento di architettura e studi urbani presso il Politecnico di Milano. Come ha illustrato la studiosa, le città sono ecosistemi complessi in cui intervenire non è facile: è necessario accettare l’incertezza degli esiti e valorizzare gli spazi vuoti come latori di impreviste e sorprendenti possibilità. Lo spazio della città, in quanto insieme di infrastrutture e di opportunità (materiali e immateriali), è quindi il luogo migliore per progettare risposte. Un sistema tanto complesso presenta infatti innumerevoli sfide che, come “punti di aggancio”, permettono di aggrapparsi e avviarsi a un cambiamento sistemico.

Se le città sono piene di germogli di idee promettenti, è anche vero che troppo spesso queste epifanie sono troppo deboli per costituire una direzione concreta di azione. Si delineano così, come continua la studiosa, due distinte linee di intervento: la dimensione orizzontale, che lavora su un progetto reticolare volto a far lavorare in sinergia le individualità coinvolte, e la dimensione verticale, che cura le relazioni con le istituzioni. Esponenti della prima direttrice sono Francesca Gotti e Pietro Bailo, presenti all’incontro in rappresentanza de Lo stato dei luoghi, una dimensione sperimentale in cui convergono attivatori di spazi in tutta Italia con lo scopo di costruire un network di realtà impegnate in pratiche di rigenerazione urbana. Tale dimensione intermedia facilita a sua volta l’interazione fra istituzioni e società civile, in quella direzione verticale messa in luce dalla professoressa Concilio. 

foto: ufficio stampa

Con l’intervento di Anna Moro, docente al Politecnico di Milano, ci si è calati invece nello specifico del progetto YAK AROUND, il programma che mira a costruire un virtuoso collegamento tra Spazio Yak e il quartiere Bustecche. Il teatro è solo uno dei linguaggi utilizzati; il suo scopo, ben al di là del mero intrattenimento, è quello di farsi collante di una comunità creando, insieme ad altre forme artistiche, occasioni di stimolo che attivino la capacità immaginativa delle persone coinvolte. Un esempio concreto è l’installazione Tempesta, realizzata collettivamente a partire dall’obiettivo di creare una struttura fisica da inserire nel piazzale antistante lo Spazio Yak per rispondere alle esigenze di chi pur attraversandolo non riesce a sentirlo proprio. Il risultato, reso possibile dall’intervento di un gruppo di architetti e progettisti, è una struttura in legno semi permanente la cui progressiva costruzione continuerà sino all’estate e che potrà diventare di volta in volta una bacheca, uno scaffale, un riparo, evolvendosi insieme alla nascente comunità del quartiere.

La parte finale della mattinata è stata invece dedicata a un tavolo di discussione in cui i temi degli incontri hanno interagito con le suggestioni di ciascuno. Si è scelto di cominciare, su suggerimento di Stefano Beghi, dalle criticità legate all’ideazione e alla gestione dei luoghi, per individuare quei punti di aggancio problematici menzionati da Concilio. Diversi sono state le questioni affrontate, dalla sostenibilità (sia in fatto di costi che di tempo da dedicare agli spazi di cui ci si prende cura) fino ad approdare all’intramontabile tema della sensibilizzazione delle nuove generazioni. A rimanere sospesa è la domanda posta da Beghi: è dalla progettazione di idee che nascono nuovi spazi o è solo dagli spazi fisici che possono nascere nuovi progetti? In bilico tra la tensione a progettare luoghi per consentirne la successiva abitazione, l’educazione alla fruizione consapevole e l’appello a un senso inclusivo di appartenenza, l’incontro si chiude senza fornire risposte. Ma è caratteristica propria di un clima di ricchezza e fervore culturale la possibilità di porre domande senza pretendere risposte univoche: a essere necessari sono piuttosto spunti sui quali interrogarsi, e tentativi attraverso cui mettere alla prova nuovi approcci. Qualunque sia la risposta, ciò che importa, come afferma Concilio, è il concedersi uno spazio di errore in cui sperimentare, con la possibilità di tornare poi a riflettere sui propri risultati. 

Chiara Carbone e Ivan Colombo

foto di copertina: ufficio stampa


Questo contenuto è parte dell’osservatorio dedicato al progetto En Plein Air.