Stefano Beghi è il direttore artistico di Karakorum teatro, una realtà artistica attiva nel varesotto con un’importante attenzione al carattere comunitario delle arti performative. Spazio Yak è da tempo considerato un punto di riferimento per le comunità circostanti: una fucina di azioni e pensieri in cui convergono sguardi sul contemporaneo e prospettive future.

Come si inscrive Karakorum teatro, e nello specifico lo spettacolo Pugni e biciclette redux, all’interno del progetto En plein air?

Pugni e biciclette redux è un’esperienza partecipativa che si svolge nel centro di Varese e si innesta profondamente nella storia della città; la partenza ha avuto luogo in piazza Monte Grappa, realizzata negli anni della dominazione fascista all’interno di un piano urbanistico volto a creare un nuovo centro cittadino. Il cuore di Varese è nato nel segno del conflitto, e per noi artisti è stato naturale scavare tra le pieghe della memoria attraversandone la sedimentazione dello spazio urbano. Raccontiamo nuovamente, a dieci anni di distanza dalla sua prima versione, una storia che restituisce il significato originale ai luoghi che viviamo ogni giorno indagando i modi in cui le comunità precedenti li hanno abitati. Grazie all’esperienza teatrale prendiamo coscienza di una stratificazione di memorie e biografie di cui noi rappresentiamo l’ultimo frammento, e questo è ciò che mi interessa di più. Ma siamo anche agenti di cambiamento, sia perché apportiamo modifiche alla percezione della città dando ai luoghi nuove destinazioni d’uso, sia perché abitandola ne cambiamo il significato; una piazza come questa, nata per le adunate fasciste – con tanto di balcone! –  oggi diventa un luogo dove esercitare un pensiero critico inserito in un contesto globale in mutamento.

Stefano Beghi

Spazio Yak è ben più di una residenza artistica: è soprattutto un luogo di aggregazione della comunità cittadina. Qual è la tua esperienza rispetto al coinvolgimento attivo delle persone?

È importante ricordare che oltre a stimolare la comunità, noi stessi ne siamo parte: da qui l’esigenza di nominare tra cittadini e cittadine, all’interno del contesto operativo di Spazio Yak, alcuni ambassador che partecipano con noi ai processi decisionali. Non significa democratizzare la direzione artistica, bensì constatare che siamo tutte e tutti parte di un’unica comunità che abita la città, e quindi il teatro. Le persone si radunano attorno a uno spazio perché percepiscono che in esso risiede una risorsa utile allo “stare bene” comune: ed è per questa ragione che, senza rendersene conto, i soggetti teatrali iniziano a offrire cure e servizi ulteriori rispetto a quelle di uno spazio performativo. Il ruolo degli ambassador diventa essenziale per garantire questo bisogno comunitario, possibile unicamente attraverso la messa in campo di un gruppo eterogeneo di competenze. 

En plein air ha stimolato una seria di riflessioni sul legame tra spazi, comunità e arti performative. Come leggi l’esperienza degli hackathon alla luce delle indagini condotte sin qui?

In questa nostra indagine sul senso degli spazi teatrali l’esperienza degli hackathon è stata molto rilevante! È urgente parlare della percezione di sacralità che avvolge ancora l’esperienza del teatro: ho l’impressione che essa allontani le persone più di quanto sia in grado di attirarle. Siamo tutte e tutti a servizio del teatro, ma è nostro compito aprire lo spazio teatrale alla commistione e alla compromissione affinché non risulti una scatola vuota. L’obiettivo degli hackathon è stato quello di offrire alle persone una casa in cui riscoprirsi comunità. Di conseguenza abbiamo compreso – ed è una valutazione valida per la nostra realtà territoriale, ma auspicabile per qualunque altra – che il pubblico non assiste ai nostri spettacoli come fruitore passivo, ma per partecipare attivamente alla nostra attività.

Pugni e biciclette redux, foto di Giacomo Vanetti

Difficile immaginare un approccio come questo nelle grandi città.

Conta il principio, non la forma. Se i grandi teatri lasciassero entrare la vita negli spazi immensi che possiedono, aprendo i foyer alla città, potrebbero riscoprire l’intenzione, la direzione e il senso del progetto individuandone la forma più indicata alla propria identità artistica e personale. Tutto ciò avrebbe risonanza anche nei palazzi del potere al punto da determinare un ripensamento dei criteri con cui vengono assegnati i fondi: pensare che uno spazio venga sostenuto per il suo deficit è il contrario delle regole del buon senso.

Anche Pugni e biciclette redux ricerca in maniera altrettanto sentita questo senso di partecipazione?

Le persone che vivono questa esperienza sono messe in una condizione di totale orizzontalità: a ogni partecipante sarà richiesto di collaborare durante la messa in scena e di fare propria la responsabilità della riuscita dell’evento e della corretta ricostruzione degli episodi della Resistenza varesina che raccontiamo. Al di là delle differenze tra i luoghi e le forme della fruizione, bisogna ricostruire una dimensione in cui tutte e tutti possano essere coprotagonisti della propria città, stimolando una modalità d’uso o un pensiero rispetto ai luoghi che abitiamo. Ci piace pensare a una proposta di teatro che sostituisca la resa estetica con la partecipazione attiva.

Ivan Colombo


foto  di copertina: Pugni e biciclette redux, foto di Giacomo Vanetti

Questo contenuto è parte dell’osservatorio dedicato al progetto En Plein Air.