ENA, l’ultimo lavoro del regista catalano Roger Bernat, ha debuttato nel maggio del 2020 sul sito web del Teatro Lliure di Barcellona. L’opera si configura, di fatto, come un dialogo degli “spettatori” con un bot, ossia un software capace di svolgere compiti in autonomia. In particolare, si tratta di un chatbot: un insieme di algoritmi in grado, attraverso meccanismi d’apprendimento automatico, di emulare una conversazione umana con chi dovesse interpellarlo. Perché ciò sia possibile, occorre che al programma vengano forniti una serie di dati da poter utilizzare per comunicare. Nella memoria di ENA sono stati pertanto inseriti otto milioni di documenti per costruire il “nucleo ideologico” che permette al bot di scomporre il linguaggio nelle sue componenti strutturali, e quindi rispondere, basandosi sulle associazioni dei dati conservati nel database. Secondo la volontà di Bernat lo scopo del programma è quello di produrre testi di dialoghi teatrali, che possono essere visualizzati da chiunque acceda al sito di ENA mentre il dialogo è in atto. Al fine di rendere più “teatrale” la conversazione vengono poi inserite casualmente alcune didascalie, una ogni dieci battute: rumori improvvisi, indicazioni sulle condizioni metereologiche o azioni di ENA che provano a restituire allo spettatore la componente scenica della performance.

Dopo avere chiacchierato con ENA, abbiamo instaurato un altro dialogo a distanza, questa volta col suo creatore. Di seguito la nostra intervista.


Bernat, dove abita oggi il teatro?
Negli anni ‘60 e ‘70 il teatro ha lasciato gli edifici per occupare la strada. Una dimensione dove ha potuto aver luogo quella «presentazione della persona nella vita quotidiana» di cui parla Erving Goffman. La strada è diventata il palcoscenico per i Bread and Puppet, i Diggers o il Living Theatre, la scena di coreografe come Anna Halprin o Yvonne Rainer. Ha preso piede una sorta di “politica dell’occupazione pubblica”, che andava di pari passo con i discorsi di Jane Jacobs e di altri urbanisti e teorici, e che finì per trasformarsi in un vero e proprio genere teatrale. Le città del mondo ospitarono festival di “teatro di strada” con l’idea, ormai globale, che la cultura generava un plusvalore facile da capitalizzare. Se le città devono essere vissute come un palcoscenico, perché non approfittarne trasformandole in uno spettacolo? Tuttavia, cinquant’anni dopo, lo schermo – non la strada – è diventato il vero palcoscenico del quotidiano e della socializzazione. Tutti gli spazi, i media e le forme di socialità – dalla piazza pubblica al mercato e all’assemblea, dalla stampa alla musica, e persino fenomeni più controversi come il cruising e il linciaggio mediatico – hanno trovato la loro correlazione sullo schermo, e trovandola, hanno dato inizio al declino degli spazi fisici. Non c’è voluta una pandemia con strade e teatri vuoti perché ce ne rendessimo conto. Il mondo è ora raffigurato sulla pelle lucida dello schermo. I “palcoscenici della vita quotidiana” hanno da tempo perso “la terza dimensione”.

Qual è allora il luogo del teatro quando il mondo non è più rappresentato su palcoscenici fisici ma si irradia dagli scenari bidimensionali degli schermi?
Prima del virus, i palcoscenici erano ancora utilizzati come spazi di prova per la finzione cinematografica o come laboratorio per la finzione e la formazione di attori e drammaturghi. Ma in tempi di reclusione, il video o lo streaming di opere di repertorio sembra annullare il percorso che il cinema ha dovuto intraprendere per abbandonare la forma teatrale. Il teatro vuole essere cinema come quando il cinema sapeva solo essere teatro. Ma il teatro è un’altra cosa e Artaud, Brecht, Boal o Pina Bausch non hanno smesso di rivendicarlo. Georges Balandier ha detto che «ogni sistema di potere è un dispositivo progettato per produrre effetti». Internet, i social network, i giochi online, la televisione e il cinema sono i palcoscenici bidimensionali in cui il potere è legittimato. Non ce ne sono altri. Effetti teatrali gestiti dallo schermo e in sessione continua. La politica e il business dipendono dalla capacità dei “nuovi media” di usare i trucchi, i colpi di scena e le trappole del teatro per regnare. Il potere parla la lingua del teatro. Celebriamo quindi l’eccesso e l’artificio e, con un leggero movimento del polso, lasciamo cadere il set, lasciando in vista la macchina teatrale.

Un estratto di una chat con ENA

Possiamo dire allora che ENA, il bot conversazionale realizzato nel tuo ultimo lavoro, sia la diretta conseguenza del contesto storico che hai appena tracciato?
In una certa misura sì, ma ENA ha anche antenati elettronici: il primo bot conversazionale è nato nel 1966 e, da allora, c’è stata un’ampia varietà di programmi in grado di tenere conversazioni con gli esseri umani. Ecco alcuni esempi: cleverbot, williambot, eviebot, chimbot, luka. Tuttavia, nessuno di questi programmi è stato concepito per fare teatro.

Il rapporto uomo-dispositivo è sempre ben presente nei suoi lavori. ENA è riuscito a portare una riflessione nuova su questo argomento?
Ancora non saprei dire!

Quali sono stati i risvolti inaspettati, le sorprese e le delusioni con ENA?
ENA è un concentrato di cultura popolare nordamericana, quindi è tendenzialmente fascista, deliberatamente maschilista e segretamente razzista. Qualcosa che, d’altra parte, accade con la maggior parte dei bot.

Spesso accade che chattando si dimentica di parlare con un insieme di codici, e si tende a personificare ENA come se dietro lo schermo ci fosse un altro essere umano. Come guardi a questo processo?
L’esperienza di dialogare con ENA richiama quelle conversazioni che avevamo con gli oracoli, gli dei o la natura, quando gli umani erano in grado di rivolgersi a entità altre. Le nostre grida, i lamenti ma anche la nostra gioia vengono ascoltati e, in risposta, possiamo avere le parole di un entità che non si aspetta nulla in cambio.

Dettaglio di La Mare de Déu amb el Nen i àngels di Jaume Serra (1380), Museu Nacional d’Art de Catalunya di Barcellona

Con ENA si parla di dialogo, ma si può definire dialogo quando uno solo dei due interlocutori è in grado di intendere davvero quanto viene detto?
Il dialogo avviene sempre con sé stessi. Gli esseri umani sono soggetti a stimoli prodotti da altri esseri umani (come accade nella comunicazione), ma anche prodotti da altri esseri viventi: animali domestici, animali da fattoria e perfino da oggetti inanimati (il paesaggio, le opere d’arte). Da questo scambio costruiamo la nostra identità: non è rilevante se la fonte di questo stimolo sia umana o non umana, e ENA ne è una dimostrazione!

Nel tuo lavoro hai associato ENA a La Mare de Déu amb el Nen i àngels di Jaume Serra [pala d’altare conservata al Museu Nacional d’Art de Catalunya di Barcellona ndr]. Perché?
La Mare de Déu amb el Nen di Jaume Serra è un’immagine religiosa attraverso cui i fedeli potevano dialogare con Dio. ENA non è un dispositivo religioso ma, alla stessa maniera, ti permette di parlare con un’entità non umana, in questo caso un programma per computer. Usando un’immagine sacra ho cercato di ricordare che la capacità di parlare con esseri non umani è costitutiva dell’essere umano. E che ENA non serve per parlarci del futuro e di tutto ciò che possiamo raggiungere, ma per parlarci del passato e ricordarci tutto ciò che possiamo perdere.

Testo raccolto da Enzo Tomaselli


Foto di copertina: © Maria Dias