Confrontarsi con la copiosa letteratura critica dedicata a Peter Shaffer e al suo Equus somiglia allo svolgere una ricerca di storia del costume e delle idee: quasi un’indagine sulle variazioni della sensibilità giornalistica e collettiva, più che un’esplorazione di utili fonti per un’analisi spettacolare. Intervistato dal New York Times nell’aprile del 1975, sei mesi dopo il fortunato debutto statunitense della pièce, Shaffer si dimostra sorpreso, finanche irritato, da quanti avevano voluto leggere nella vicenda di Alan Strang — il protagonista diciassettenne, ossessionato dai cavalli e ciò nonostante reo di averne accecati sei nella scuderia presso cui lavorava — un velato riferimento a un’omosessualità celata, mai nominata nella pièce. Secondo il drammaturgo «people do not create out of merely and narrowly autobiographical experience»: Shaffer era gay, ma nessuna delle sue opere affronta direttamente il tema. Eppure ci fu chi definì Equus un esplicito «trattato sull’omosessualità»; l’opinione pubblica stava mutando, sulle due sponde dell’Atlantico, e si iniziava ad accettare — è lo stesso autore a ricordarlo, in un’altra intervista rilasciata per il quotidiano newyorkese — «boys’ sexual interest in girls, and today, boys’ in boys». Ben diversa fu invece la reazione di gran parte del mondo psichiatrico e psicoanalitico: con un articolo feroce Sanford Gifford, membro della Boston Psychoanalytic Society, derubricò i dialoghi tra Alan e Martin Dysart, lo psichiatra al quale è affidato il ragazzo, a una serie di cliché terapeutici e banali psicologismi, complici nel gettare ulteriore discredito a una professione, all’epoca, sotto plurimi attacchi. Sono gli anni, d’altro canto, dello sviluppo del pensiero di Erving Goffman sulle istituzioni totali, e soprattutto di uno dei più celebri corsi che Michel Foucault tenne al Collège de France — quello dedicato al potere psichiatrico e allo studio sulle forme della disciplina — che confluirà poi, proprio nel 1975, in Sorvegliare e punire. Sessualità; psichiatria e antipsichiatria; controllo e assoggettamento: gli anni Settanta vedono in Equus le opposte tensioni di una società in lotta con sé stessa, tra conservatorismo e ribellione, tra tradizione e sovversione. I riallestimenti dei primi decenni del nuovo millennio fanno invece i conti con ben altre istanze: ormai considerate palesi — «excruciatingly blatant», secondo Ben Brantley — le tensioni omoerotiche del testo, sembrano illanguidirsi anche le sue supposte propensioni antiterapeutiche, irrimediabilmente diluite in una società le cui componenti sembrano ricercare, più che l’accettazione di un io selvaggio e folle, una soluzione a una conflittualità intima e collettiva percepita come lacerante. Nella messe di recensioni, approfondimenti, corsivi e interviste dedicata dal giornalismo statunitense e britannico a Equus, a costituire le pressoché uniche coordinate della riflessione sono così l’incandescente desiderio che lega Alan ai cavalli, e la relazione di cura che si struttura tra il ragazzo e Dysart. Secondari, quasi marginali, appaiono invece altri grumi di senso: i rapporti tra le generazioni e i microcosmi familiari, la deriva consumistica e tecnologica della vita quotidiana, il dominio televisivo, soprattutto l’ancipite lascito della classicità greca, sulla quale Shaffer tornerà, in un significativo addio, con Il dono della medusa, la sua ultima creazione.

Eros Pagni e Giovanni Crippa in 𝘌𝘲𝘶𝘶𝘴, regia di Marco Sciaccaluga, 1975, @Publifoto

Ecco che affrontare oggi Equus significa anche misurarsi con la polvere del tempo, con l’invecchiamento di prospettive a lungo considerate imprescindibili; implica il riconoscere le eredità dei padri e la stratificazione degli immaginari — lo scandalo di una passione incomprensibile, di un celebre nudo integrale in scena, di una feroce disamina della più bigotta religiosità — e il superare le tassonomie con la consapevolezza di un presente ben più laico e tormentato, più smaliziato e frammentato. Sono passati cinquant’anni dal primo, e fino a oggi unico, allestimento italiano: un’altra società— l’assassinio di Pier Paolo Pasolini, il massacro del Circeo, la riforma del diritto di famiglia — accoglieva il resoconto di un caso clinico atipico e sconcertante. Furono Eros Pagni e Giovanni Crippa, nei ruoli di Martin e Alan, a fare scalpore e consegnare al successo l’Equus diretto da un appena ventiduenne Marco Sciaccaluga; oggi è il figlio Carlo ad accettare la duplice sfida della ricezione di un testo fortemente radicato in un contesto storico ormai lontano, e del confronto con un’edizione teatrale memorabile. È un passaggio di testimone, l’accettazione di un lascito: e tuttavia questo Equus, al suo debutto per il Teatro Nazionale di Genova — nella stessa sala che lo vide dispiegarsi nel 1975, il Teatro Eleonora Duse — tenta con coraggio di assimilare quella memoria e al contempo di superarla, in equilibrio tra citazioni filologiche e scarti interpretativi. Le maschere equine create da Lorenzo Rostagno e Valentina Viviano si sovrappongono a quelle originali, e quando il racconto del passato di Alan si fa più intenso e vibratile celano con le loro fattezze animali i volti di attrici e attori. Anche la scena disegnata da Anna Varaldo, astratta e metafisica, accoglie del primo allestimento originale i dettagli: alcune panche; una struttura centrale mobile; una lunga passerella disposta lungo il fondale, sulla quale un tempo era disposto parte del pubblico e che adesso è riservata all’azione degli interpreti. Ma la severità del quadrato, di quel ring sul quale si scontravano i corpi e le anime nella prima versione, lascia tuttavia il posto a modelli circolari e spiraliformi: tutto, nella regia di Carlo Sciaccaluga, contribuisce a un moto tanto centripeto, di accerchiamento e costrizione, quanto centrifugo, di inane slancio verso l’altrove. È l’altrove dal quale si muove Luca Lazzareschi: nei primi istanti della pièce il suo Dysart si muove dalla platea — lo spazio dell’ordinario, di quella normalità preclusa ad Alan o da lui rifiutata — verso il palco, in un tentativo di avvicinamento alla verità di un ragazzo (Pietro Giannini) e a quella tenerezza, quella passione, quell’adorazione che prova per i cavalli. Lo osserviamo mentre abbraccia Michele De Paola, lo scrutiamo inginocchiato ai suoi piedi che calzano zeppe come agili zoccoli, lo contempliamo mentre a torso nudo distende le braccia, in un gesto che è resa, venerazione, puro amore. È un mistero, quello esperito da Alan: un segreto inconoscibile e finanche ineffabile, ma soprattutto un rituale iniziatico, una dottrina a noi preclusa. L’incedere drammaturgico — qui proposto in una traduzione curata da Marco e Carlo Sciaccaluga, che aggiorna nel lessico e nel ritmo la versione del 1975 realizzata da Marco insieme a Paola Ojetti — inscrive così, al di sotto delle sembianze di un giallo psicoanalitico, un’indagine sulla sacralità e sul suo destino in un mondo ormai secolarizzato. Alla pia devozione della madre (Pia Lanciotti) e alla sua ordinaria quotidianità scandita da preghiere e letture della Bibbia, Alan sostituisce il culto per una divinità ferina e seducente, quell’Equus che trova un’ipostasi nel cavallo Nuggett, un’iconografia in un close-up fotografico di un muso equino, e una liturgia in gesti di ascesi e mortificazione del corpo. 

foto: Federico Pitto

Un laccio stretto fra i denti e annodato sulla nuca, una flagellazione di sé ritmata dalla recitazione di genealogie e titoli divini, finanche un bacio dato allo zoccolo del cavallo, nel sussurro di un amen estatico: tutto, nella complessa ritualità che Alan rivela progressivamente a Dysart, tra sedute di ipnosi e sessioni dialogiche, sembra un atto di sottomissione erotica. Ma la regia di Sciaccaluga scarta da fin troppo facili letture, rifiuta con intelligenza di calcare su qualsiasi anacronistica trasgressione, e mette al centro invece il corpo a corpo — non più metaforico perché sensuale e sensoriale — tra un giovane uomo e un Dio al quale avvinghiarsi, in una preghiera che si confonde con la lotta. Come Giacobbe alle prese con l’Angelo, il contatto tra Alan ed Equus è un combattimento, un’estenuante cavalcata, una relazione di potere nella quale i ruoli appaiono opachi e instabili. La passione, carnale e cristologica, che il ragazzo esperisce e ritualizza, è tuttavia per Dysart il correttivo individuale, chissà poi se davvero patologico, al vuoto che una religiosità di vane formule ha lasciato nello spazio un tempo occupato dal sacro: un’alternativa possibile al predominio moderno della televisione — è Dio stesso che parla attraverso di essa, avrebbe detto un ventennio più tardi Karl Popper — e un ritorno a un’età pagana e primordiale. I jingle pubblicitari sostituiscono i discorsi e le parole, i brand di elettrodomestici erigono assordanti muri di promesse di efficienza e di specifiche tecniche, e il consumatore assedia Alan con una coreografia — a curare i movimenti scenici è Claudia Monti — di ripetitivi e insensati gesti. È da ciò che il giovane uomo fugge, inabissandosi in un ricordo d’infanzia, immergendosi nella memoria di un breve istante nel quale forza e bellezza, libertà e desiderio si incarnarono nella mitologica coppia formata da un cavallo e da un cavaliere.

foto: Federico Pitto

Forse è proprio qui, in questa coraggiosa capacità di sfumare l’ardore del desiderio con una fanciullesca innocenza, di meticciare l’eccitazione con l’imbarazzo, che la performance di Pietro Giannini commuove ed esalta: nel controllo della sua gestualità, in quei micromovimenti che ne costellano l’agire, nelle variazioni del timbro vocale, appare tutta la brutalità di un conflitto condotto soltanto contro sé stesso. Eccolo rivelare il proprio credo, distrattamente come in un atto mancato, mentre cammina e un piede scalcia inavvertitamente al suolo; eccolo sollevare il maglione e svelare per brevi istanti la pelle, sopraffatto dall’ardore, mentre contempla come strigliare il manto di un cavallo; eccolo sconfitto dalla vergogna, riverso a terra, quando il padre (Paolo Cresta) lo disarciona da una sella. Ma è tutto l’ensemble a disseminare di minimi dettagli una partitura recitativa capace di imprimersi nella memoria: Lazzareschi è un Dysart sotto il cui rigore e l’asciutta postura si intuiscono le braci del rimpianto, perfino dell’invidia per quel ragazzo disperato e vitale; Lanciotti e Cresta conferiscono tutta l’ambigua valenza di un amore familiare più inadeguato che falso; De Paola e Giulia Prevedello — Jill, la giovane le cui avances determineranno il tracollo di Alan e l’allucinata tortura inflitta ai cavalli della scuderia — sono anime travolte da una vicenda più grande di loro. A un’umanissima, tenera e risoluta Camilla Semino Favro — Ester Salomon, la magistrata che affida il ragazzo a Dysart — Shaffer e Sciaccaluga affidano l’acuta comprensione dell’unico aspetto, nella straziante e magnetica vicenda di Alan, del quale tutte e tutti dovrebbero, e dovremmo, farci carico: il suo dolore. Nei pochi scambi che intercorrono tra Salomon e Dysart — godibili anche per le differenze dell’approccio recitativo, per la sinfonia di stili che Lazzareschi e Semino Favro concertano — appaiono cristalline le contraddizioni di un percorso in cui salvare significa tanto normare e normalizzare, quanto prendersi cura, accogliere, coprire con un maglione un corpo nudo ed esausto, un corpo scrutato e sezionato da occhi feroci. Equus è anche, non a caso, una straordinaria riflessione sullo sguardo: un dispositivo panottico — di nuovo Michel Foucault, e con lui Jeremy Bentham — che sequestra Alan in un dominio di assoluta visibilità, di totale disponibilità alla vista. La madre spia l’intimità del ragazzo, il padre lo sorprende in un cinema porno, i cavalli ne contemplano un amplesso, e attrici e attori isolano Giannini in una sovraesposizione lancinante, in un fulcro prospettico che è schiavitù più che dominio. Accecarli, ed edipicamente accecarsi, è perciò l’evasione da un carcere di chiarore, l’esilio da quel regno di superficiale evidenza nella quale le ombre sono rinnegate, e l’osceno, perché invisibile, è ripudiato. Era un’altra luce quella che avrebbe dovuto circondare Alan, e con lui tutti noi: lo splendore di un giorno sulla spiaggia, quando un uomo ci strinse mentre eravamo a cavallo, quando ci siamo sorpresi a pensare che sì, forse era quella la felicità.

Alessandro Iachino


in copertina: foto di Federico Pitto

EQUUS
di Peter Shaffer
traduzione di Marco e Carlo Sciaccaluga
con Luca Lazzareschi (MARTIN DYSART, psicanalista); Pietro Giannini (ALAN STRANG); Paolo Cresta (FRANK STRANG, suo padre); Pia Lanciotti (DORA STRANG, sua madre), Camilla Semino Favro (ESTER SALOMON, magistrato); Giulia Prevedello (JILL MASON/ UN’INFERMIERA) Michele De Paola (HARRY DALTON/UN GIOVANE CAVALIERE)
regia Carlo Sciaccaluga
scene e costumi Anna Varaldo
musiche Andrea e Leonardo Nicolini
movimenti coreografici Claudia Monti
luci Aldo Mantovani
regista assistente Alice Ferranti
realizzazioni maschere Lorenzo Rostagno, Valentina Viviano con la supervisione di Saverio Galano
assistente volontaria alla regia Gaia Macassaro
cast tecnico direzione di scena Fabrizio Montalto, capo macchinista Nathan Copello, capo elettricista Marco Giorcelli, fonico Edoardo Ambrosio, sarta Cristina Bandini, intimacy coordinator Valentina Calandriello
produzione Teatro Nazionale di Genova
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