Scena vuota, privata anche delle quinte. Nel silenzio assoluto, un danzatore rannicchiato a terra e in totale nudità si muove (in maniera quasi impercettibile) dall’estremità del palco verso il centro. A guardarlo, il suo non sembra neppure un corpo umano: replica piuttosto l’aspetto di una cellula informe o di un piccolo insetto. A un certo punto però perde il suo equilibrio precario, cade e si ritrova in posizione fetale. Tenta allora di ricomporsi: puntate le mani a terra, spinge verso l’alto, cresce, evolve, si mette in piedi. È diventato uomo.

Opera centrale di una trilogia elaborata nel corso di tre anni (2017-2019) e fondata sul tentativo di tradurre in gesto la musica di partenza, Erectus è uno spettacolo incantevole, elegante e delicato. Alla base del lavoro, i coreografi Abbondanza e Bertoni pongono l’album Pithecanthropus erectus di Charles Mingus, composizione precorritrice del free jazz. Come la corrente musicale concettualizza una ricerca di estrema libertà improvvisativa, slegata dall’estetica tradizionale e dai rigidi schemi precostituiti, allo stesso modo l’esecuzione si caratterizza per una pluralità di codici fisici che vengono giustapposti, sovrapposti e stratificati liberamente.

Quattro danzatori attraversano lo spazio scenico esposti al pubblico al loro stato brado, spogliati degli abiti così come della tradizione. Tra qualche rond de jambe en l’air, repentini grand battement e persino un passaggio sulle punte, la grammatica della tecnica tradizionale viene decostruita per essere ricostruita e dare spazio all’essenza energica e vitale dei corpi in scena.

La nudità, che permane per tutta l’esibizione e che a un primo sguardo potrebbe apparire l’elemento caratterizzante dello spettacolo, passa così ben presto in secondo piano: il pubblico ci si abitua rapidamente, la accetta come semplice e naturale condizione umana. È allora la stretta compenetrazione con la musica a imporsi all’attenzione dello spettatore: melodia e movimento appaiono l’uno il proseguimento dell’altra, in una costante stimolazione reciproca. Il corpo si appropria del ritmo, delle scale e degli accenti per trasformarli in istinti fisici. Gli sfrenati danzatori portano avanti l’esibizione in maniera instancabile, sfoggiando una forza quasi animalesca che cattura e ammalia il pubblico.

Lungi da impellenze narrative o emotive, il corpo diventa così territorio di indagine di un concetto assolutamente concreto: la virilità. Fil rouge della performance, la ricerca è orientata tuttavia al recupero di un senso del maschile ben lontano dalle sovrastrutture ideologiche che il termine ha nella nostra società. Maschilità diventa anche delicatezza del gesto, forza armonica, corpo esteso e allungato, movimento sciolto e sensuale (che a tratti strizza l’occhio in maniera provocatoria al canonico “femminile”).

La drammaturgia coreografica è tessuta in maniera impeccabile, chiaramente leggibile sebbene frastagliata e stratificata. I momenti di assolo si intrecciano perfettamente ai passaggi di assoluta sincronia; ingressi e uscite dei singoli avvengono in maniera improvvisa e allo stesso tempo senza che lo spettatore possa neppure accorgersene. Altrettanto fluido appare il costante slittare da momenti di sfogo irrefrenabile a sezioni di restituzione e ancoraggio alla musica.  Le tematiche esplorate sono molteplici, dalle fasi dell’evoluzione darwiniana, con tanto di imitazione della deambulazione saltellata a quattro zampe delle scimmie, fino ai riferimenti alla contemporaneità, con gesti tanto meccanici da ricordare Chaplin in Tempi Moderni. Una pluralità di generi e linguaggi gestuali combinati in modo spontaneo. Non mancano rielaborazioni e appropriazioni di passi della danza jazz, dei cori gospel o della tap dance. È in questo gioco citazionale – una sorta di apologia “canzonatoria” dell’umanità – che si inseriscono chiari richiami a opere come la Pietà di Michelangelo, La Danza di Matisse, il Cristo di Velàsquez.

Insomma, un’esplorazione di riferimenti metamediali e metastilistici volti ad esporre un’umanità sfaccettata. Indicativa è allora l’assimilazione tra maschile e animalesco operata mediante l’utilizzo della proiezione. Su un telo agitato da una ventola e posto sul fondale, a intervallare ogni brano dell’album di Mingus, vengono presentate una serie di immagini in bianco e nero, sfocate e di difficile lettura proprio a causa del costante agitarsi del tessuto. L’immagine potrà essere compresa a pieno solo a fine spettacolo: è allora che il velo cade e sul muro nudo la figura diventa nitida. Si tratta di un cavallo possente, nero (simbolo, nel linguaggio dei sogni, della pulsione sessuale), energico, forte, virile, dal collo allungato e teso, gli occhi iniettati di sangue.

E come la caduta del velo rende leggibile in tutta la sua essenza l’immagine, allo stesso modo, durante la performance, l’umanità stessa viene svelata. Erectus ci accompagna in un viaggio verso le possibilità di tutto ciò che “maschile” può significare, al di là di sovrastrutture sociali e incrostazioni culturali.

Alessandro Stracuzzi


foto di copertina: Simone Cargnoni

progetto, regia e coreografia Michele Abbondanza, Antonella Bertoni
coreografie in collaborazione con i danzatori
Marco Bissoli, Fabio Caputo, Cristian Cucco, Nicolas Grimaldi Capitello
musiche
Charles Mingus Pithecanthropus erectus
disegno luci Andrea Gentili
regia video
Sebastiano Luca Insinga
realizzazione video Jump Cut con
Federico Visintainer
produzione
Compagnia Abbondanza/Bertoni
con il sostegno di
Mic Direzione generale per lo spettacolo dal vivo, Provincia Autonoma di Trento – servizio attività culturali, Comune di Rovereto – Assessorato alla cultura, Fondazione Cassa di Risparmio di Trento e Rovereto, Regione Autonoma Trentino Alto Adige/sìSudtirol
un ringraziamento particolare aDanio Manfredini e Tommaso Monza
ringraziamo inoltre
Riccardo Brazzale


Questo contenuto è parte dell’osservatorio critico MILANoLTREview