Il 29 novembre 2020, entrare nella sala del teatro LAC di Lugano per assistere a una prova aperta dello spettacolo Fedra di Leonardo Lidi ha rappresentato prendere maggiore consapevolezza della precarietà di questo momento storico, che riguarda ognuno di noi.
Seduti distanti, dotati tutti di almeno una mascherina a coprirci il volto, assistiamo a una delle prove di Fedra, in attesa di un debutto ancora oggi lontano da venire. In questo clima noi, spettatori selezionati, ci sentiamo in una condizione di privilegio: abbiamo la possibilità di assistere a quello che già ci appare come spettacolo teatrale (nonostante non sia concluso del tutto in ogni sua parte) e di tornare a confrontarci con il nostro “ruolo” di pubblico.
La scena è molto semplice: una panchina rossa — di quelle più comuni della città di Lugano — campeggia al centro del palco: entrano due donne, vestite e pettinate allo stesso modo, si siedono e iniziano un dialogo molto fitto. Stanno parlando dell’amore per Ippolito, figlio del re Teseo; una è convinta che non si possa fare nulla per evitarlo, o ammansirlo, come se fosse un mostro interiore che si fa sempre più forte; l’altra invece ha i piedi per terra e, condannando quel mostro contro natura di nome amore, scongiura l’abominio di spezzare il suo contratto matrimoniale con Teseo. Del ritorno di quest’ultimo, nonostante ora sia lontano da casa, lei è più che certa: «Teseo torna sempre».
Le due donne non sono che due facce della stessa medaglia, due volti della stessa, sfortunata persona: Fedra. Uguali eppure opposte, rappresentano il dissidio interiore della protagonista, eroina e vittima di un fato più grande di qualsiasi forza umana. L’amore per Ippolito è divino, devastante, furioso, impossibile da domare, ma è come dementia per la parte logica di Fedra. Quest’ultima non riesce a comprendere come la pulsione di amore (o di morte) possa avere la meglio, soverchiando l’altro amore, quello per il marito Teseo, perciò invita l’altra Fedra a dimenticare: in fondo è possibile «accettare anche questo dolore». Ma l’innamorata risponde: «In fondo cosa può l’uomo? Non ha nemmeno la certezza che il tetto della propria casa resista negli anni». Questa convinzione porta la Fedra ardente in primo piano, mentre l’altra, la più ragionevole, si ritira sconfitta nel fondo cupo e tenebroso della scenografia. È questa mancanza di certezze che rassicura la donna nella sua folle impresa di sedurre Ippolito. Questa “piccolezza” di Fedra davanti a un incommensurabile destino la avvicina da subito a noi, che a tratti sembriamo provare la stessa sensazione nel bel mezzo della pandemia: è la sua impotenza dinanzi al destino ad attrarci all’interno del suo dramma, al ritmo incalzante dei dialoghi.
Durante lo spettacolo cresce la sensazione che tutti i personaggi provino un profondo senso di isolamento ed esclusione: vinta ormai dall’amore per Ippolito, Fedra si confida con la giovane figlia, la quale condivide la preoccupazione per questo amore insano perché anche lei “colpevole” della stessa libido. E tuttavia le due parlano senza mai rivelare i reciproci drammi interiori, senza mai capirsi davvero.
Ippolito entra in scena come un ragazzino annoiato dal mondo, un misantropo che usa il sesso come un mero e vacuo passatempo. Intelligente è la scelta di farlo apparire come un playboy che gioca con la pallina da tennis esattamente come gioca con le parole di Fedra, non capendo la reale portata del sentimento. Ippolito infatti è l’eroe che ritiene ogni evento, ogni rapporto troppo insensato per viverlo appieno: nell’apatia e nel distacco più totale ci viene detto che lui e Fedra «fanno l’amore» ma sulla scena i loro corpi nemmeno si toccano.
La repulsione per il corpo dell’altro è evidente. E noi, così abituati, spaventati, dalla vicinanza di altri corpi, siamo ormai completamente immersi nella scena e nel loro dramma. La distanza e la paura del corpo altrui ci conducono in questa stessa repulsione?
Come accade nella tragedia classica, anche qui Fedra si suicida, arretrando nel buio del fondo-scena dopo aver lasciato un biglietto accusatorio per Ippolito. Quest’ultimo, imprigionato dalle sue stesse azioni, non nega nè afferma di essere responsabile della morte di Fedra. Il suo silenzio lo isola definitivamente: la scenografia incornicia il momento in cui lui e la figlia di Fedra rimangono completamente soli, sulla panchina, venendo lentamente ingabbiati da una struttura che li circonda e che li imprigiona nella casa in cui si è svolta la tragedia, dove il male è già presente.
Nessuno può più entrare, come nessuno può uscirne: questa è la scoperta che fa anche Teseo, che ritorna diventando l’indiscusso protagonista dell’ultima parte dello spettacolo. A lui è affidato il triste compito di svelare, con voce incupita e incredula, che la solitudine ha invaso il suo regno, la sua casa. La drammaturgia è studiata e pensata a partire da una riflessione sul senso devastante dell’attesa, della paura e della solitudine davanti a un destino che improvvisamente è comparso a travolgere ognuno di noi. Il regista Leonardo Lidi ha affermato che si è rivisto in questi personaggi soli, isolati forzatamente e impauriti, rinchiusi in una casa da cui non si può né si vuole fuggire. Per questo ha pensato alla tragedia euripidea attraverso alcune sue riscritture (la Phaedra di Seneca, la versione di Ghiannis Ritsos e Phaedra’s love di Sarah Kane), cogliendo una domanda necessaria per questo (nuovo) senso di esclusione, di incomprensione e di alienazione.
Gli attori recitano tenendo esattamente conto di questa opprimente incertezza, non perfezionando ogni battuta, non chiarendo ogni gesto: in accordo con il regista, tengono lo sviluppo della tragedia sempre sospeso a un filo, mai del tutto compiuto, lasciando pure il pubblico in trepida attesa di una vera risoluzione di questa Fedra. Ma noi spettatori, nello specifico, siamo perfettamente in grado di cogliere il dramma dell’incompiutezza dello spettacolo, perché in qualche modo è anche il nostro: nessuno sa, ora, quando si potrà davvero mettere la parola ‘fine’ alla situazione limitante che ci è stata imposta. Questa prova aperta parla prima di tutto a noi, che nel nostro presente riviviamo un nuovo senso tragico, e che, come gli attori, come Fedra, Teseo, Ippolito, vediamo e capiamo questa impossibilità di essere ‘liberi’, e allo stesso tempo aneliamo il bisogno di una più vera libertà.
La struttura drammaturgica si conclude strategicamente con la canzone Eternità — composta da Giancarlo Cavazzi e Claudio Cavallaro e suonata nel 1970 da I Camaleonti con Ornella Vanoni —, che incarna il bisogno finale di chiudere, o riaprire di nuovo, il cerchio della storia di Fedra, della nostra storia: lasciando che almeno una «carezza» incornici, con forza e dolcezza, una tragedia di tutti.
Lucia Rossi
Fedra
testi di: Seneca, Euripide, Ovidio, Sarah Kane e Rithsos
adattamento e regia di: Leonardo Lidi
con: Alessandro Bandini, Leda Kreider, Christian La Rosa, Francesca Porrini e Maria Pilar Pérez Aspa
disegno luci: Marco Grisa
assistente alla regia: Alan Alpenfelt
produzione: LAC Lugano Arte e Cultura
visto al al LAC di Lugano_29 novembre 2020
Contributo pubblicato nell’ambito del progetto: