testo e regia di Vincenzo Pirrotta
Produzione CTB
Visto al Teatro Sociale di Brescia _ 26-31 gennaio 2016

Delfi e il santuario di Apollo; Atene, il tempio della dea e il tribunale dell’Areopago; l’inattesa Palermo e il vicolo del Teatro dei Pupi, della malìa dei remoti cunti: sono questi i luoghi delle Eumenidi di Vincenzo Pirrotta, che rievoca le tragiche vicende della casa degli Atridi alla maniera di un cuntista, di un narratore che altro non ha se non il proprio corpo – “teatro mobile” -, la propria voce e una spada di legno, oggetto simbolico e veicolo di gesto, ritmo, parola, tempo (così ne parla il maestro Mimmo Cuticchio).

Così, all’inizio di Eumenidi, ‘lu gridu’ di Clitemnestra lacera il tempo accompagnato dagli inesorabili movimenti della spada e dal ritmato battere del piede e trascina con sé le mani insanguinate del matricida Oreste, vendicatore, per ordine di Apollo, della morte del padre Agamennone (si vedano le riflessioni di Martina Treu nel capitolo Eumenidi, la città all’interno del volume Cosmopolitico, Arcipelago 2005).
La violenza si fa visibile nelle parole e assedia il volto del cuntista, operando distorsioni: sono i volti dipinti da Francis Bacon, quelli indossati da Pirrotta, ed è sul Triptych Inspired by Oresteia of Aeschilus, eco di “odore di sangue umano mi sorride” (Eumenidi, 253), che vengono costruiti alcuni gesti dell’attore quando assume il ruolo di Oreste.
Al Triptych si ispira anche il cubo trasparente, che allude sia al tempio di Apollo a Delfi – al cui interno svetta un monolite bianco, segno della pietra conica ritenuta l’ombelico della terra – sia al tempio di Atena sull’Acropoli. La casa degli dèi dell’Olimpo è il fuoco delle principali azioni sceniche della profetica Pizia –  altra maschera di Pirrotta -, di Oreste, delle Erinni (sulla cangiante identità attorale di Pirrotta si è soffermata Stefania Rimini in Le maschere non si scelgono a caso)

Le figlie della Notte entrano in scena striscianti, ipnotiche, inquietanti. I loro movimenti parossistici e ossessivi sono amplificati dal canto straziante e cupo di Oreste e dalle accerchianti sonorità della tammorra, che assecondano il mutare dei volti del matricida assediato e l’animalesco canto circolare – a tratti una litania – delle nere creature. Il loro fine è chiaro: “spulpari le carni” di Oreste e il gesto che sostiene il verso è una potente trasposizione del Saturno che divora i figli di Goya.
Ma altro sangue non sarà versato. Gli dèi dell’Olimpo, Apollo e Atena, e la comunità degli uomini incaricati di giudicare saranno in vario modo artefici della pacificazione. Giustizia è fatta nell’Areopago. Giustizia è fatta?

Di fronte ai protagonisti del dramma torna il cuntista che crea uno spiazzante e tragicomico epilogo. Più che in un algido tribunale il concitato vociare del polifonico Pirrotta trascina gli spettatori a Ballarò, creando una indimenticabile scena di contrattazione dei voti che si risolve in un compromissorio pareggio tra i voti per l’assoluzione di Oreste e quelli per la sua condanna, così voluto dai ‘saggi’ giudici per non inimicarsi nessuno. Il voto favorevole di Atena farà la differenza, Oreste è assolto ma si piegherà a essere inconsapevolmente utilizzato dalla dea per esportare la democrazia ateniese ad Argo. Le Erinni, convinte dalla dea, rinunceranno alla loro natura e diverranno benevole – “chi ce lo fa fare a stare dietro agli assassini?”.
“Tutti cuntenti”, dunque, è la giustizia trova un suo ironico trionfo. Così come ironicamente trionfa nel romanzo discusso e aberrante di Jonathan Littell, in cui Le Benevole rinunciano alla persecuzione di chi ha commesso crimini inauditi, cioè di uno degli artefici della Shoah, perché ogni fatto di sangue si può sempre circoscrivere nel perimetro dell’umano.

Vedete pure le tragedie antiche, urla al pubblico il satiro Pirrotta nella sua ultima tirata, svelando l’idea del tragico che guida la sua messa in scena, agli antipodi del classicismo; venite pure a teatro a godere delle tragedie antiche, chè le altre tragedie, quelle che accadono intorno a voi, o di cui ricevete le immagini, le avete ingoiate, ce le avete ormai dentro e non vi accorgete nemmeno che esistono. O se esistono sono anch’esse spettacolo, a cui si assiste coi vestiti buoni (‘allicchittati’).

Giustizia è fatta? Domande provocatorie, scomode verità, disagio nel lasciarsi trascinare dal canto finale, parossistico, dionisiaco, sulla giustizia che, nella storia, non si invera nei tribunali.

 

Sotera Fornaro, Raffaella Viccei