«Un mondo azzurro e verde, con le nuvole bianche che ne intessono delicatamente l’intera superficie. Quella foto, chiamata dal suo autore Earthrise e catalogata dalla NASA con la meno poetica sigla AS8-14-2383HR, cambiò, per sempre, la nostra idea della Terra, rivelandoci un pianeta di maestosa bellezza, ma anche fragile e delicato. Una colorata isola di vita in un universo per il resto vuoto e buio». Con queste parole Stefano Mancuso descrive, nel suo prologo al testo La Nazione delle piante, come doveva apparire la Terra all’equipaggio della missione Apollo 8, durante una delle dieci orbite intorno alla Luna. Era il 1968 e nessuno fino a quel momento aveva mai visto il lato nascosto della Terra farsi nitido e chiaro. Ci si sente un po’ come quegli astronauti, attoniti e spaesati mentre osservano quella “colorata isola”, al termine di Eutopia, nuovo spettacolo di Cristina Galbiati e Ilija Luginbühl – alias Trickster-p – , andato in scena dal 18 al 26 marzo al LAC Lugano Arte Cultura,  e prossimamente in programma dal 29 aprile al 5 maggio a FOG Triennale Milano Performing Arts.

Astronauti, dicevamo. Non solo perché il gioco scenico mette nelle mani degli spettatori il manuale di istruzioni per scoprire le regole di funzionamento di un ecosistema sconosciuto; e nemmeno solo perché il pubblico vi si trova immerso, invitato a compiere scelte in grado di preservare la sopravvivenza di tutte le specie viventi di quel pianeta “fragile e delicato”. Gli spettatori di Eutopia si sentono improvvisamente come astronauti perché costretti ad abbandonare una visione antropocentrica della Terra e a dotarsi di un innovativo punto di vista su quanto li circonda, che tenga conto anche delle necessità indispensabili di tutte le altre specie viventi, non solo di quelle degli esseri umani.
Cosa e come fare allora per salvaguardare il futuro di un ecosistema così complesso?

foto: Giulia Lenzi

Punto primo. Tutto transita dalle regole del gioco
Come si evince dalle note di regia di Cristina Galbiati, Eutopia propone allo spettatore «di esplorare un diverso paradigma di “fare insieme”» attraverso dinamiche partecipative e ludiche. Il gioco scenico si articola così in cicli vitali, dei quali gli unici protagonisti e artefici sono di fatto gli spettatori, divisi in cinque squadre: a loro spetta il compito di inserire alcune carte-specie – esseri umani, animali, piante o funghi – nelle caselle del tavolo da gioco, così da garantire la sopravvivenza reciproca. Ma affinché questo possa accadere, è indispensabile rispettare alcune specifiche regole di posizionamento, diverse per ogni specie. Nel ruolo di guida alle azioni delle squadre, Cristina Galbiati e Ilija Luginbühl dettano i principali passaggi e i tempi di ogni ciclo vitale, illustrando anche alcune istruzioni d’uso, in dotazione a ciascuna squadra. Una prima fase vede gli spettatori impegnati nel posizionamento delle specie, nelle condizioni tali da garantire la loro sopravvivenza; in un secondo momento i giocatori devono inserire le diverse carte-specie perseguendo un obiettivo preciso, assegnato e diverso per ogni squadra; nella fase finale, dopo il susseguirsi di continue condizioni di disequilibrio in cui versa il pianeta, le squadre devono decidere se tenere fede al proprio obiettivo oppure se perseguire l’interesse generale del pianeta. Non mancano scontri e accesi confronti tra i giocatori: chi vorrebbe che tutte le squadre promuovessero azioni tese al bene comune dell’intero ecosistema; chi, invece, preferisce continuare a inseguire lo scopo della squadra, anche se questo comporta lo spopolamento o addirittura la scomparsa di un’intera specie.

foto: Giulia Lenzi

Punto secondo. Fare insieme o fare per sé?
Il fare insieme previsto dal dispositivo partecipativo di Eutopia è così duplice e appare in tutte le sue sfumature contrastanti: se gli spettatori giocano insieme, dovendo coniugare la scelta individuale con quella del gruppo, allo stesso tempo la loro responsabilità decisionale passa gradualmente da un interesse di “clan” a un fine più alto, quello di garantire la sopravvivenza di tutte le specie in un sistema equilibrato. Perseguire il proprio obiettivo come singoli gruppi di gioco oppure perseguire un obiettivo più alto per la sopravvivenza delle specie e della comunità tutta?
Le decisioni di ogni spettatore e così di ogni squadra implicano conseguenze immediate e spesso, anche se l’obiettivo del gruppo mira a salvaguardare il bene comune, non è detto che l’intento venga raggiunto poiché il campo è animato da forze spesso incontrollabili, quali ad esempio le azioni delle altre squadre, le carte di volta in volta pescate in modo casuale e le condizioni inderogabili previste dal disegno drammaturgico (una volta confermata la scelta della squadra, ahimè, non si può più tornare indietro). Ne deriva un articolato ecosistema scenico che, alle funzionalità tipiche del dispositivo, affianca quelle del game design fino alla creazione di un vero e proprio spazio sonoro che esalta quella “alterità indotta” di cui parla Zeno Gabaglio nelle sue note, ovvero «un’esperienza non ordinaria ma autentica». Lo spettatore attraversa così spazialità ibride ma profondamente intrecciate tra loro, quella materiale del tavolo da gioco, quella digitale – che lo spettatore scopre solo nella fase conclusiva – e quella sonora. Spazi cosiddetti blended, volti a suggellare l’eterogeneità del percorso esplorativo.

foto: Giulia Lenzi

Punto terzo. Il caso questo sconosciuto
D’altro canto il naturale sottotesto di Eutopia affonda le radici nella complessità di un ecosistema che vede specie viventi legate da un reciproco rapporto di interdipendenza, all’interno del quale «il caso gioca spesso un ruolo non trascurabile con cui bisogna inevitabilmente fare i conti e che, tutto sommato, a volte non si tratta di vincere e perdere, ma semplicemente di cambiare prospettiva». Questo il punto centrale dello spettacolo, cambiare prospettiva: le regole e i meccanismi insiti nel gioco impongono di adottare uno sguardo altro, che si avvicini alle esigenze vitali di tutte le specie, non solo di quella umana. Spesso questo mutamento non è però sufficiente a garantire l’equilibrio indispensabile per la sopravvivenza. E la funzionalità del dispositivo, in tutti i passaggi ludici dello spettacolo, ce lo ricorda: lo spettatore inciampa, sbaglia e anche quando porta a termine con successo un’azione tesa a preservare il benessere dell’intero ecosistema avverte la scomoda sensazione che comunque in ogni caso l’apporto sia incompleto e mancante. Come se all’interno del casellario del gioco vi fosse sempre una variabile indecifrabile e incontrollabile. È l’architettura del dispositivo ludico a non lasciare scampo allo spettatore: per quanto si arrovelli sulle possibili variabili, la sua ricerca continua a disegnarsi sul tavolo da gioco, senza giungere a una soluzione definitiva e risolutiva. Che sia allora indispensabile concentrarsi più a lungo sulle domande poste dai meccanismi del gioco anziché sui risultati, spesso frettolosamente messi in campo?

foto: Giulia Lenzi

Punto quarto. Quale lo scopo del gioco, se non il gioco stesso?
Eutopia non propone una vincita o una perdita, non offre un “the end” come vorrebbe la buona prassi scenica. Lascia più un monito, celato nel finale oltre le sinuose linee colorate che si stagliano sullo schermo nero di un monitor: dietro alle curve gialle, rosa, verdi e viola ogni spettatore vede la raffigurazione visiva delle sue azioni, ossia il ciclo vitale di ciascuna specie (e dell’intero ecosistema). Ogni partecipante osserva la sua azione dall’esterno – un momento che ci ricorda per certi versi lo spettatore di Domini Públic mentre osserva le pedine al termine del gioco, a firma del regista catalano Roger Bernat – e questo riavvolge le lancette della performance al suo punto d’origine, ossia a quel necessario senso di straniamento cui le note di regia invitavano in apertura. Trickster-p si riconferma abile nell’ideare originali architetture sceniche – pensiamo ai precedenti Book is a Book is a Book e Nettles – dove, nel caso di Eutopia il dispositivo ludico mappa le azioni dello spettatore fino a tratteggiarle in un’immagine che richiama quella prima visione della Terra, celebrata dagli astronauti. La differenza è che qui non siamo in orbita, e non siamo nemmeno in un luogo che non esiste, ma siamo nella profonda materialità di quell’ecosistema che inizia con la lettera E di earth, e che rimette in campo le carte da gioco per la sua sopravvivenza. Sta, oggi come allora, alla libera scelta dello spettatore se accogliere l’invito a cercare le domande più insondabili prodotte, in questo caso dai meccanismi del gioco, e dargli spazio nel “qui e ora” del teatro. E, in definitiva, nel “qui e ora” del nostro divenire spettatori, che non si esaurisce dentro a quelle linee colorate ma risuona nelle parole di una celebre canzone di Angelo Branduardi «(…) Sei la strada accogliente che il mio passo sa già, sei vento, sei tempo, sei la terra che ho».

Carmen Pedullà


foto di copertina: Giulia Lenzi

EUTOPIA
creazione Trickster-p
concetto e realizzazione Cristina Galbiati, Ilija Luginbühl
collaborazione artistica Simona Gonella, Yves Regenass
collaborazione al game design Pietro Polsinelli
spazio sonoro originale Zeno Gabaglio
assistenza e collaborazione alla costruzione Arianna Bianconi
grafica e consulenza all’allestimento Studio CCRZ
produzione LAC Lugano Arte e Cultura, Trickster-p
in coproduzione con Theater Chur, ROXY Birsfelden, Südpol Luzern, TAK Theater Liechtenstein, FOG Triennale Milano Performing Arts
residenza di creazione presso Le Grütli – Centre de production et de diffusion des Arts vivants (Genève)
con il sostegno di Pro Helvetia – Fondazione svizzera per la cultura, DECS Repubblica e Cantone Ticino – Fondo Swisslos, Città di Lugano, Municipio di Novazzano, Fachausschuss Tanz & Theater BS/BL, SWISSLOS/Kulturförderung Kanton Graubünden, Landis & Gyr Stiftung, GKB BEITRAGSFONDS, Stiftung Dr. Valentin Malamoud, Boner Stiftung für Kunst und Kultur, Bürgergemeinde Chur, Fondazione Winterhalter