“Sui sogni infranti di chi li aveva preceduti: è questo il terreno su cui sono nate le nostre città, le nostre case, il luogo dove potersi ritenere al sicuro, la nostra Eutropia”. “Nostra”, ma sarebbe meglio dire, quella immaginata da Fattoria Vittadini. Sul palco della sala Fassbinder dell’Elfo Puccini aleggia il buio quando la voce di una danzatrice seduta nell’oscurità fa risuonare queste parole. A illuminare l’oscurità della scena solo tre luci: due torce e una stellata di piccole lampadine fissate sotto un tavolo, rovesciato in favore del pubblico per l’occasione. I due fasci di luce più potenti partono dal basso e indagano lo spazio, come alla ricerca di qualcosa, e non è forzato riuscire a immaginare il palco come la superficie di un mare su cui galleggiano invisibili persone desiderose di ricominciare. “Un’officina di possibilità…” recita nuovamente la voce nel buio. Una promessa che costa tuttavia una gran fatica: e infatti fino a qui, e per tutto lo spettacolo ancora, danzatori cadono e si rialzano continuamente, così come gli elementi scenografici vengono spostati, riconfigurati, nel tentativo evidente di edificare queste possibilità, trovare, attraverso i movimenti, il proprio spazio vitale.
A costruire la nostra Eutropia, infatti, bastiamo solo noi e il nostro sforzo di vivere insieme: l’invito sotteso nel buio è quello di riuscire a coabitare nello stesso luogo “come elementi di un’unica orchestra”. E non importa se l’apparente tranquillità raggiunta nel buio, una specie di calma sospesa sul palco, sarà nuovamente negata non appena tornerà il giorno: almeno per un momento ci si può concedere una tregua e considerarsi in pace. I suoni martellanti che hanno invaso le orecchie del pubblico fin qui rimangono ora continui e bassi ad accompagnare le parole e le luci delle torce, che sono anche gli unici veri “movimenti” compiuti in questo momento dai danzatori. Sembrano in stallo perfino i continui ribaltamenti scenografici e coreografici che rendono il lavoro di Fattoria Vittadini composito e capace di ricordare il dispositivo combinatorio delle Città invisibili di Calvino (da cui lo spettacolo è liberamente tratto). Quando il sole sta per sorgere di nuovo e i rumori tornano gradualmente a farsi sentire, si capisce che questa parentesi notturna era solo un prendere fiato, un momento di contrasto, per poter apprezzare maggiormente le sequenze che lo hanno preceduto e che lo seguiranno. Ora i tre danzatori sono attorno al tavolo in quello che sembra essere un momento familiare di condivisone, ma le posate stanno già sbattendo e i corpi hanno già iniziato a muoversi: la ricerca della nostra Eutropia ricomincia di nuovo.
Daniele Rigamonti
Questo contenuto è parte dell’osservatorio critico MILANoLTREview