Alessandro Pontremoli_ storico della danza
MariaGiulia Serantoni_coreografa di Eutropia
Vanja Vasiljević_redattrice di A critic mess!
VANJA. Una domanda per lo storico della danza: ormai Fattoria Vittadini ha dieci anni. Come si inserisce l’opera della compagnia nella danza contemporanea e che ruolo gioca in questo panorama?
ALESSANDRO. Bisogna innanzitutto stabilire cosa si intende per contemporaneo. Sento molto vicino ciò che afferma Agamben: “contemporaneità come inattualità”, cioè essere molto vicini e vedere molto bene ciò che c’è ora, ma nel contempo cercare di allontanarsene il più possibile. È paradossalmente essere inattuali per poter essere attuali. Quindi la danza contemporanea in tale prospettiva è giocare a non fare arte, perché l’arte di fatto non è contemporanea, ma appartiene all’Ottocento.
Per tornare alla domanda, ultimamente parlo spesso di tre paesaggi, utilizzando concetti dell’architettura del paesaggio teorizzati da Gilles Clement: paesaggio del museo, che nel nostro campo corrisponde alla danza accademica; terra di mezzo, sui cui non mi soffermo; e terzo paesaggio. Senza dilungarmi ulteriormente, Fattoria Vittadini si colloca secondo me nel terzo paesaggio, un paesaggio di risulta, che non trova posto negli altri due. Lì si colloca il nuovo, che non si può alimentare altrove. Interessante è quindi studiare Fattoria Vittadini perché significa attraversare questo terzo paesaggio in lungo e in largo: perché Fattoria Vittadini, che può sembrare priva di un’identità precisa, in realtà ha un’identità contemporanea molto evidente, che si manifesta all’interno del paesaggio.
V. Quali sono gli elementi di Fattoria Vittadini che potremmo ricondurre a questa forma di paesaggio?
P. Per fare degli esempi storici in questi dieci anni, il primo lavoro collettivo dei Vittadini è uno spettacolo ordinatissimo nella dimensione del caos, che lavora con tutti gli elementi possibili provenienti dalle singole personalità della compagnia. Quindi uno spettacolo che affronta la realtà dei corpi in scena con gli oggetti contemporanei per distanziarsene e trovarli quindi inattuali.
In secondo luogo, altri loro lavori sono pienamente riconducibili alla logica dell’annientamento dell’arte, che prendono cioè interpreti non professionisti e realizzano il loro desiderio di salire sul palco. Statisticamente oggi c’è più gente che vuole e fa danza di quanta vada a vedere danza. I pubblici affollano i musei solo quando c’è l’apertura gratuita, ma solo perché risponde a un fattore molto significativo della contemporaneità, cioè il desiderio dell’essere lì dove c’è la festa, cioè dove si può essere qualcosa o qualcuno insieme agli altri. L’esempio per Vittadini è il padre nello spettacolo Sarai di Francesca Penzo.
E poi c’è questa terza fase, che io incontro oggi, che chiamerei un ritorno all’opera, pur nella lotta all’arte. Un ritorno quindi a una dimensione di forma, che si confronta con il dogma del moderno, cioè danza = movimento nello spazio e nel tempo di un corpo possibilmente accompagnato da musica.
MARIAGIULIA. Mi ritrovo in molto in quest’ultima parte del dogma e del ritorno all’opera. Penso che in Eutropia ciò che mi ha più interessato fare è stato far combaciare tutto, comporre fino al minimo dettaglio. Nello spettacolo i suoni vengono prodotti dai danzatori: siamo noi a suonare, siamo noi a danzare, siamo noi a decidere dove si sposta l’oggetto nella scena. Quindi in Eutropia l’uomo ha un fortissimo potere decisionale e di composizione rispetto al mondo che si sta costruendo. È per questo che lo spettacolo prende il nome da una delle “città invisibili” di Calvino: volevo parlare di costruire qualcosa a tutto tondo, decidere di che colore è, dove collocare il fiume, la cattedrale, la scuola, quindi proprio creare un’opera. Poi, invece, sul contemporaneo posso solo dire che faccio danza e coreografo danza. Oggi. Io vivo oggi e faccio danza oggi, molto banalmente.
V. Si può dire che il teatro danza è l’espressione più piena della presenza del corpo dell’interprete sulla scena, inteso proprio nella sua specifica fisicità e matericità. Poi questo corpo può essere il simbolo di altro. Come vedi quindi il tuo corpo in Eutropia e come si potrebbe spiegare il ruolo fisico del danzatore sulla scena?
M. Per me come danzatrice e come coreografa il corpo è fondamentale. Non inteso solo come presenza sul palco, ma come capacità di mettere corpo nell’azione che viene eseguita, cioè avere delle capacità tecniche capaci di supportare l’azione che viene richiesta. Il corpo per me è uno strumento che ha coscienza di se stesso. In Eutropia questo è fondamentale. Ai miei performer chiedo tanto, tanti cambi ritmici che corrispondono a cambi di qualità, anche da un gesto all’altro. È certo un gioco di tecnica, ma anche di pensiero, che indirizza il corpo in un’azione specifica.
P. La cosa interessante è che ogni corpo che va in scena si semiotizza inevitabilmente, cioè diventa qualcosa che rimanda a qualcos’altro. Il paradosso è che succede anche laddove il corpo esegue dei task, dove è cioè puro esecutore in termini strumentali. In Eutropia, in cui avviene una vera e propria spersonalizzazione del corpo, si vede molto chiaramente. Non ci sono personaggi, ma lo spettatore li ricostruisce semioticamente a posteriori. Si potrebbe pensare che i danzatori sono tre membri della stessa famiglia: un padre e due figlie? C’è una madre? Tutti questi elementi però non sono nel processo compositivo, ma sono un lavoro di micronarrazione inevitabile che il corpo assume sulla scena.
V. Negli spettacoli di Fattoria Vittadini non mi è parso di aver mai visto un oggetto così ingombrante e con un ruolo tanto centrale come il vostro tavolo, che diventa porta, nascondiglio, ed è la fonte del suono che sentiamo in scena.
M. In realtà il tavolo ha anche la possibilità di essere costruito in scena. Si tratta di un lavoro ancora da sviluppare, ma nel mio immaginario i danzatori entrano in scena e costruiscono il tavolo. L’elemento del costruire, fondamentale a mio avviso nel nostro momento storico, si riallaccia a tutti gli elementi dello spettacolo. Però siamo danzatori, non operai. Quindi ho voluto il suono. Non sono la prima a far suonare oggetti: il microfono a contatto e la musica concreta esistono da anni. In Eutropia, però, il danzatore compone live sulla scena. Attraverso un software abbiamo la possibilità di scegliere che suoni emette il tavolo e con quelli abbiamo creato una partitura musicale sui e con i gesti dei danzatori. Il suono mi interessa perché riesco a giocarci a livello fisico-corporeo grazie alla risonanza, facendolo diventare visibile.
P. Si tratta di un lavoro molto interessante, che si distanzia da altre esperienze di sonorizzazione che conosco perché si mantiene un equilibrio tra costruzione coreografica e sonora. Riescono a far diventare il suono tridimensionale, tanto da fargli assumere il ruolo di danzatore. Il lavoro è talmente preciso che lo spettatore arriva a domandarsi se sia una traccia sonora o no. Ma nella trasmissione del suono c’è uno scarto di un decimo di secondo che l’occhio umano riesce a percepire ed è ciò che rende tutta l’operazione umana e quindi molto contemporanea. Oltretutto questo suono, accompagnato da una dinamica di un certo tipo, provoca delle vibrazioni a livello dello stomaco che portano fisiologicamente a una reazione emotiva inevitabile. Sarebbe proprio un aspetto da sviluppare.
V. Mi sembra evidente che ci sia una struttura nello spettacolo, o almeno a me pare di averla colta da spettatrice.
P. Io vedo quattro momenti strutturali: la presenza del tavolo stabile (1), il tavolo che assume una tridimensionalità spaziale fuori dal suo solito posto (2), poi c’è una parte più libera, un ponte – forse la parte maggiormente da elaborare, che diventerà naturalmente qualcosa di più preciso (3) – e l’ultima, assolutamente sconvolgente, delle “ballerine tribali” (4). Qui la continuità con il resto è data dalla presenza dei piatti, ma la cosa interessante è la danza che definirei solare, femminile, ma caratterizzata da una corporeità androgina. Le interpreti hanno infatti dei corpi segnati dal lavoro del danzatore, con una muscolatura interessantissima. Più che la gonna sono quindi evidenti la schiena e gli addominali e la dimensione di ambiguità è potente. In quest’ultima parte, un divertissement, la precisione sta nella danza, nella forma, non più nel meccanismo, che invece è tutto nelle parti precedenti.
M. Devo ammettere che le scene più elaborate sono quelle con il tavolo; alle ultime due ho lavorato meno, ma a livello drammaturgico simboleggiano il ribaltamento di Eutropia e volevo sentire il parere del pubblico. Nell’ultima parte volevo svelare i tanti lati di questa città; volevo capire cosa succede quando da quello che sembra un tavolo all’improvviso sbucano due donne. È un’immagine che mi è nata dentro. Volevo assolutamente che i piatti fossero decontestualizzati, diventassero altro, come Ceci n’est pas une pipe. Per me Eutropia è tutta da scoprire: ritengo che sia un pezzo che si fa da solo e aspetta solo che io apra le finestre giuste per farlo. Il mio è un processo di comprensione.
V. Da una parte abbiamo Eutropia, che è una città; dall’altra abbiamo iniziato parlando di paesaggi. Forse emerge la necessità di determinare una spazialità?
P. Certamente. La danza è inevitabilmente in un luogo. Addirittura in certi momenti della storia della danza il luogo ha sostituito la danza. Oggi vediamo spesso la danza invadere i paesaggi urbani, perché va in risposta al bisogno delle persone di muoversi in uno spazio, di poter danzare, di essere protagonisti. C’è un ritorno ai luoghi, al situarsi, al collocarsi.
M. La danza per me è un rapporto tra spazio, tempo e peso. In quanto tempo attraversi uno spazio e con quale corporeità, cioè con il tuo peso. Lo spazio è più importante del tempo in Eutropia: non si sa in che tempo siamo (non svelo se siamo nel presente, passato o futuro o in un eterno non tempo), ma sicuramente si vogliono definire degli spazi, non geograficamente, ma proprio nella loro collocazione fisica. Qui e non due centimetri più in là, perché altrimenti non avrebbe lo stesso effetto. Come per il corpo e per la musica, è necessario in Eutropia anche un rigore per lo spazio.
A cura di Vanja Vasiljević
Eutropia
di MariaGiulia Serantoni
visto a Zona K il 16 dicembre 2017