Il pubblico non si è ancora abituato al buio in sala che subito viene folgorato dall’enorme scritta che campeggia sospesa al centro del palco, Excelsior , una sorta di prolessi di una continua e rapida sequenza di immagini, alternate tra video e coreografie. I due schermi sospesi al centro del palco diventano allora lo specchio in cui lo spettatore è obbligato a confrontarsi, mentre i video trasmessi sono muti testimoni – spesso violenti e crudi, altre volte ironici e grotteschi – che mettono a nudo temi scottanti e attuali: la tragica migrazione nel Mediterraneo si contrappone all’immagine di un lussuoso yacht; icone del progresso come la Torre Eiffel lasciano il posto a scene di miseria e guerra. In questo bombardamento multimediale, irrompe una musica tribale che si mescola al suono incessante di una sirena d’allarme; diventa sempre più dirompente fino a quando cala un esasperato silenzio che coincide con la comparsa in scena dei danzatori. I danzatori sono vestiti con abiti moderni e stravaganti, con stampe animalier, cantano motivetti e arie liriche e esplorano lo spazio, asettico e delimitato da tubi al neon. Poi iniziano a muoversi senza essere una vera e propria unità: interagiscono, si incontrano, ma non danzano mai in modo coeso, fino a quando si uniscono a creare una torre umana, un intreccio di corpi che si incastrano alla perfezione. Un’armonia che però dura poco e che viene subito distrutta.
A poco a poco il palco si trasforma in una giungla: ad affollarla sono gli stessi danzatori che, tra scene e controscene, danno il via a una ecosistema complesso: una danzatrice ancheggia in modo sensuale e, twerkando, imita i video trasmessi di icone del pop occidentale, immagini dove la sessualizzazione del corpo è al suo apice. Un altro danzatore, vestito con solo la cartina geografica dell’Africa, viene spogliato e attaccato da un esploratore armato di un fucile giocattolo, a richiamare esplicitamente il feroce colonialismo europeo sul continente. In questo contesto scenico, già sufficientemente eclettico, giungono infine due personaggi con vestiti ottocenteschi a stampe vegetali: passeggiano nella giungla, che, gradualmente, viene smantellata al loro passaggio. La coppia si ferma e guarda in direzione del pubblico: la donna, sfidando gli spettatori, solleva la vaporosa gonna, all’interno della quale si legge a chiare lettere J’entends de la tempête, “sento arrivare la tempesta”. Ed effettivamente la tempesta arriva. Fa capolino uno schermo gigante che copre l’intero palco e tre lupi, in una pianura spoglia e fangosa, dilaniano il tricolore italiano. In trasparenza possiamo ancora scorgere i danzatori tornare in scena, uno ad uno, nudi, a comporre una massa di corpi stanchi. Il pubblico resta attonito e stordito nel buio e nel silenzio della sala.
Martina Abati
(ph: Carolina Farina)
Questo contenuto è parte dell’osservatorio critico MILANoLTREview