La danza italiana gode di buona salute. L’esame obiettivo ne rivela – a dispetto della stasi dolorosa alla quale è costretta ormai da mesi – il perdurare di un’attitudine alla ricerca, una crescita organica dei suoi elementi, la capacità di sfrangiarsi e dilagare in altri territori, assumendo forme nuove e adattandosi a contesti in perenne metamorfosi. Anamnesi recenti, come le ultime edizioni di Contemporanea Festival o della Biennale Danza, testimoniano l’esistenza di un gruppo ampio di giovani coreografe e coreografi che, ormai da qualche anno, costruiscono con pervicacia le proprie identità, portando avanti uno studio a volte già riconoscibile come unico e autoriale. Uno sperimentare forse non scevro di inciampi, di indecisioni, ma non è tratto caratteristico di ogni evoluzione il procedere by trials and errors?
A distanza di quasi due anni dalla sua pubblicazione, il Survival Kit 2019 – la breve nota con cui la redazione di Altre Velocità registrava, tra gli altri fenomeni, anche l’emersione di una generazione di danzatrici in grado di dipingere una scena «che tramite seduzione, forza e rigore prova a rompere le cappe autistiche dei codici per suggerire qualcosa di diverso» – sembra avere trovato conferma nei cartelloni nazionali, finanche europei. Molti dei nomi allora indicati hanno animato le rassegne di Prato e Venezia, ed entrano sempre più spesso a far parte delle stagioni di tanti teatri; altri se ne sono aggiunti, in un processo rizomatico che da un lato sembra rivelare l’esistenza di “nodi”, di centri nevralgici attorno ai quali si agglutinano costantemente nuovi protagonisti della scena, dall’altro attesta il persistere di rapidissimi processi di filiazione e osmosi, di costante migrazione tra i ruoli del performer e quello del coreografo.
L’edizione 2020 di Fabbrica Europa, in questo senso, è sembrata condensare alcune delle istanze in atto, accogliendone infine altre, inedite, rese necessarie dalla pandemia e dalla forzata lontananza degli artisti dalle sale prova. Il festival diretto da Maurizia Settembri e Maurizio Busia si è così proposto, una volta ancora, come uno dei termometri più affidabili del panorama coreografico nazionale, con il quale poter tentare di delineare lo stato generale della scena italiana: accanto a protagonisti acclarati – Enzo Cosimi, al quale è stata dedicata una piccola retrospettiva, ma anche Cristina Kristal Rizzo, Alessandro Sciarroni, Daniele Ninarello – Fabbrica Europa ha ospitato una costellazione ampia di artiste e artisti, accomunati dall’appartenenza a una galassia in costante sviluppo e in alcuni casi luminosa. Gli spazi del PARC Performing Arts Research Centre, sede della Fondazione Fabbrica Europa dal 2019, hanno riverberato indagini in grado di meticciare discipline, visioni e approcci, nonché di tradurre la lunga chiusura dei teatri – e il conseguente trasferimento di gran parte delle attività sulle piattaforme web – in occasioni con le quali misurare le possibilità immaginifiche di un lavoro ideativo a distanza, solitario e al contempo plurale.
È questo il caso di Corpi Elettrici, il progetto che ha visto dialogare il Collettivo MINE con un gruppo di allieve e allievi dei corsi di Musica elettronica e Musica applicata del Conservatorio G.B. Martini di Bologna, guidati da Daniela Cattivelli: un incontro co-ideato insieme a Gender Bender Festival, svoltosi nei mesi primaverili del lockdown e di conseguenza forzatamente mediato dagli schermi di tablet e computer. La piattaforma ZOOM ha sostituito la prossimità fisica, senza tuttavia limitare la capacità di costruzione di una partitura doppia: da un lato venti micro-composizioni sonore, fulminanti istantanee musicali dal carattere sempre nuovo, dall’altro venti assoli firmati e danzati da Francesco Saverio Cavaliere, Siro Guglielmi, Fabio Novembrini, Roberta Racis e Silvia Sisto. La risultante è un “disco danzato”, un’opera coreografica concepita per un album di musica elettronica, fruibile nei suoi singoli capitoli così come nella sua totalità di romanzo musicale e gestuale. Se in prima istanza tali frammenti sono stati resi pubblici attraverso brevi video, in un’ulteriore rifrazione della trans-disciplinarietà del lavoro nel linguaggio della video-danza, adesso Corpi Elettrici è diventato uno spettacolo tout court: e tuttavia tale precipitato appare quasi secondario, volutamente marginale rispetto alla ricchezza del processo germinativo.
Corpi Elettrici si pone infatti come esempio di una modalità realizzativa di assoluta novità, ma della quale sembra opportuno evidenziare non soltanto la capacità di adattamento alla situazione emergenziale, quanto la volontà di inscrivere, all’interno del recinto forzato del distanziamento sociale e fisico, le buone pratiche dell’orizzontalità, dell’inclusione, del dialogo peer-to-peer come imprescindibile medium creativo e non più mero accessorio etico e formale. Nel testo critico di Giulio Sonno, che ha accompagnato la fase produttiva con il suo sguardo esterno, si fa riferimento all’instaurazione di relazioni empatiche «tali da nutrire il processo formativo e allentare l’urgenza produttiva dell’esito». Un esito che, nello spazio neutro del PARC, ha comunque avuto luogo: e Corpi Elettrici si è rivelato un collage di soli e rare sequenze dialogiche, nei quali la componente elettroacustica ha di volta in volta fornito l’ambiente – a tratti rassicurante, abitato per pochi istanti da voci barocche o dal canto degli uccelli, a tratti disturbante e spezzato da echi metropolitani – agito dai membri del Collettivo MINE con attitudini personali. Cifre intime si manifestano nei corpi e nel movimento: che si tratti di una liquidità della presenza, di una reminiscenza neoclassica o piuttosto della tensione esplosiva di un dancefloor, la danza di Corpi Elettrici edifica per giustapposizione un’architettura eclettica, i cui elementi fondanti si susseguono uno dopo l’altro. E se proprio qui, in questo mero accostamento di brevi brani coreografici, è insito quello che potrebbe costituire il vulnus della creazione, è indubbio che Corpi Elettrici inviti l’osservatore a riposizionare lo sguardo e a ricalibrare il giudizio, sospendendolo o assimilando a esso l’analisi di un processo che, mai come in questo caso, è parte integrante della creazione, e insieme virtuosa matrice di collaborazioni ed esperienze.
Opera ibrida e altrettanto capace di calamitare l’attenzione dello spettatore è un/dress di Masako Matsushita, lavoro che anima felicemente le zone di frontiera tra la danza e la performance art, offrendosi al pubblico del festival di arti sceniche così come, ci auguriamo nel prossimo futuro, al visitatore di una galleria d’arte. E il sottotitolo della creazione – Moving Painting – dichiara l’appartenenza a una categoria mélange, che incrocia la bidimensionalità della pittura con la spazializzazione del movimento: o forse fa deflagrare tipologie e classi, tassonomie e criteri, accostandosi a essi con grazia e ciò nonostante rifuggendoli. Già lo spazio scenico del PARC sembra, nella creazione della coreografa italo-giapponese, più simile a un’installazione museale che all’ambiente di severo minimalismo al quale ci ha abituato tanta danza contemporanea: strisce di tessuto nero, perpendicolari al proscenio, si alternano al fondo bianco del tappeto, creando una griglia dalla quale emergono, all’estremità destra, decine di reggiseni dalle fogge e dai colori più vari. È davanti alla lunga fila di capi di abbigliamento, la cui presenza appare sottilmente ironica, che Matsushita si inginocchia nei primi istanti della performance, dando le spalle al pubblico e indossando soltanto un paio di slip neri. Muovendosi di pochi centimetri alla volta, la danzatrice percorre la fascia candida mentre la schiena ondeggia ritmicamente: e con una cura che sfiora l’ossessione indossa un reggiseno sopra l’altro, deformandone la funzione originaria e trasformandoli in cinte e fusciacche che si accumulano lungo il torace.
L’inaspettata variazione nella destinazione d’uso preannuncia una riflessione – sottesa a tutta la creazione – sul corpo della donna e sul ruolo che nella sua iconografia, così come nel suo destino sociale e pubblico, hanno avuto l’abbigliamento e l’azione stessa del vestirsi. Tradendo la finalità primaria del corsetto, e tuttavia mutandolo in ennesima costrizione fisica, Matsushita agisce infatti sul crinale che separa l’emancipazione creativa dalle infinite, nuove schiavitù imposte alla femminilità. Significativa, in questo senso, appare la scelta stessa di dedicare al reggiseno e alla sua millenaria storia, legata a doppio filo alla condizione della donna, un’inusitata centralità estetica e drammaturgica, che appare cristallina quando, in piedi, Matsushita si offre allo sguardo dello spettatore, nella sovrabbondanza di seni dai colori sgargianti, come una Venere primordiale, una dea della fertilità pop e surreale.
Statuaria, la mover affida alla chirurgica precisione di pochi micromovimenti il compito di animare il corpo, finché è l’azione opposta dello svestirsi ad impegnarla: abbassa lo slip fino alle caviglie, scoprendone un altro e un altro ancora, in un processo che da liberatorio appare obbligante. Le gambe, costrette dalle decine di slip sovrapposti, sono adesso fasciate in una gonna altrettanto variopinta: il corpo, adesso, è quello di un’indossatrice, patinata icona di una bellezza straniante e folk. Complice il pregevole light design di Maria Virzì, autrice di una stratificata liturgia del chiarore e delle ombre, Matsushita dirige un dialogo tra fisicità e luce la cui implicita seduzione non è mai diretta verso l’esterno, verso un potenziale osservatore: ad avere luogo è piuttosto un atto intimo, un solipsismo con cui la cui protagonista riscopre una soggettività carnale disancorata dalle dinamiche – troppo spesso maschili – del desiderio.
È con rabbia che la performer abbandona infine le stoffe che la imprigionano: si spoglia di reggiseni e slip, e nuda dà vita a una danza ctonia, che muta il corpo in una pura forma, in un volume che si sovrappone alla continuità delle fasce bianche e nere. Suoni naturali vibrano nella fonosfera curata da Federico Moschetti, mentre Matsushita si veste delle strisce di tessuto nero, integrandosi allo spazio e tuttavia deformandolo indefinitamente. Regale, pagana, Matsushita è un’immagine senza tempo, artefice di una danza di confini e sconfinamenti: antichissima eppure futuribile, transitoria non perché caduca ma in quanto essenzialmente votata alla dislocazione. È una singola traccia, certo: eppure è anche qui, in questa danza in migrazione, che sembrano edificarsi, nella nuova coreografia d’autore, architetture sempre più significative.
Alessandro Iachino
(ph: Monia Pavoni)
Corpi Elettrici
di Collettivo Mine
da un progetto speciale di Gender Bender Festival e della Scuola di Musica Elettronica del Conservatorio G.B. Martini di Bologna
coreografia e interpreti Collettivo MINE | Francesco Saverio Cavaliere, Siro Guglielmi, Fabio Novembrini, Roberta Racis, Silvia Sisto
produzione Gender Bender Festival
con il sostegno di CSC Centro per la Scena Contemporanea di Bassano del Grappa, Fabbrica Europa, ZEBRA
composizioni sonore originali Ladan Abedini, Cristian Albani, Maele Allorio, Pier Francesco Amadei, Mitja Bichon, Gioele Billi, Dario Boschi, Salvatore Bovalina, Yuri Casali, Biagio Cavallo, Lorenza Ceregini, Alessandro Cherubini, Matteo Davoli, Simone Domizi, Alireza Farajan Hamed, Olmo Frabetti, Vicky Koushiappa, Marco Melilli, Marco Menditto, William Succi
sound design Daniela Cattivelli
sguardo esterno Giulio Sonno
un/dress | moving painting
di Masako Matsushita
di e con Masako Matsushita
musiche Federico Moschetti
assistente produzione Paolo Paggi
con il supporto di Nanou Associazione Culturale, Gabriella Biancotto, Lesley Millar, AMAT
residenze per produzione Teatro Sperimentale, Teatro Persiani, Naturalmente Sana, Bonnie Bird Theatre
management e promozione ULTRA – Michele Mele, Domenico Garofalo
Visti a PARC Performing Arts Research Centre, Firenze – Fabbrica Europa 2020