C’era davvero bisogno di un altro festival a Milano? In un inizio estate in cui i cartelloni del Piccolo e di FOG, negli spazi della Triennale, hanno prolungato il programma? Oltre ai vari Da vicino nessuno è normale di Olinda, agli interessanti eventi e alle letture volute dal neo direttore Claudio Longhi nel chiostro del teatro Grassi, agli appuntamenti coreografici a cura di Fattoria Vittadini per Vapore d’estate? C’era davvero bisogno di un’altra manifestazione nella torrida metropoli della stagione estiva, quando invece sorgono festival in province e cittadine immerse nella natura? C’è chi si è fatto queste domande, davanti alla nuova proposta ospitata da BASE dal 10 giugno al 24 luglio.
Per chi scrive, al netto della varietà delle proposte, la risposta è: sì. C’era certamente bisogno, nel vasto panorama artistico di Milano, di un festival come FAROUT, in una delle zone più modaiole e “bene” della città metropolitana. Anzitutto per gli spazi in cui si dipana: mancava un festival che sfruttasse un luogo così atipico e alternativo rispetto al suo contesto urbano come BASE, il polo culturale e creativo sorto negli ampi spazi industriali (12.000 mq su 3 piani) dell’ex Ansaldo.
Ma di FAROUT c’era bisogno soprattutto per la varietà e l’originalità dei linguaggi artistici, che a stento possono essere ricondotti nel solo ambito del teatro. Sono piuttosto performance, installazioni e creazioni interdisciplinari ad abitare gli spazi di BASE con grande efficacia. C’era sì bisogno di questo tipo di abitare, di questa apertura a nuove relazioni con spettatori più emancipati (per riprendere una celebre formula di Jacques Rancière), meno avvezzi alle forme classiche della spettacolarizzazione. Almeno a Milano, dove soltanto gli appuntamenti di zona K e Danae festival aprono a queste processualità artistiche.
Infine, c’era bisogno di FAROUT per l’idea che anima e innerva tutto quanto il festival, e quindi per la coerenza che ne contraddistingue l’identità, a differenza delle troppe stagioni o rassegne i cui titoli o propositi di lancio poi non trovano grande risonanza o corrispondenza nei cartelloni. Farout è l’oggetto celeste più lontano che sia mai stato osservato nel Sistema solare: e proprio una presa di distanza, anti-antropocentrica, ecologica e libertaria, è l’invito che la direttrice artistica Linda di Pietro fa alle spettatrici e ai partecipanti, per rimettere in discussione i limiti conoscitivi, visivi ed esperienziali radicati nella cultura occidentale.
In questo attraversamento orbitale, gli spazi di BASE sono attraversati da nuove misurazioni delle distanze: è il caso dell’istallazione Gaia di Luke Jerram che per tutto il festival campeggia all’entrata, un enorme e dettagliato pianeta Terra con cui dialogano altre performance ed eventi del programma – come l’azione coreografica firmata da Jacopo Jenna. Prospettive solide vengono ribaltate e prospettive nuove sperimentate grazie a questo attento uso degli spazi, con cui le artiste e gli artisti riescono a dialogare con creatività e libertà.
Un esempio: salire dalle scale in ferro, accedere a uno spazio vasto e deserto, percorrere un lungo corridoio di colonne di cemento e… entrare in una tenda. Special Handling di Elisabetta Consonni – coreografa e artista dedita alla ricerca sullo spazio pubblico e sulle stratificazioni sociali dei corpi – è un incontro, un nuovo abitare che, per tornare al tema di FAROUT, fa emergere qualcosa di invisibile, fuori portata – come ci è stato raccontato qualche settimana fa: «Nel caso di Special Handling, entrare in contatto con le donne di Spazio socialità e scoprire le pratiche di cui erano silenziosamente – e a volte inconsapevolmente – detentrici mi ha permesso di cogliere davvero tutte le implicazioni del concetto di “sapere invisibilizzato” che un contributo di Daniel Blanga Gubbay aveva portato alla mia attenzione. È una questione di potere: questi saperi sono invisibili perché detenuti da individui marginalizzati, e perché sono, nelle logiche del mondo in cui viviamo, irrilevanti».
Altre due performance catturano l’attenzione e chiamano la presenza attiva dello spettatore, giocando a rovesciare prospettive e a rimisurare distanze. E non sarà un caso se, assieme a Consonni, anche i due collettivi Corps Citoyen e Effetto Larsen sono supportati e seguiti da Culture&Project, una piccola realtà curatoriale portata avanti da Vittoria Eugenia Lombardi e Silvia Ferrari e impegnata a diffondere e supportare le arti performative italiane e non solo.
Corps Citoyen propone in anteprima GLI ALTRI لخرين, una performance multidisciplinare di straordinaria potenza, che mostra e decostruisce la percezione occidentale dell’altro per eccellenza: lo straniero. Lungi dal cadere in facili discorsi retorici, la regista Anna Serlenga e il performer Rabii Brahim esplorano assieme al pubblico la violenza delle parole, la coercizione di un immaginario infestato di stereotipi culturali e dispositivi mediali, le contraddizioni neanche troppo nascoste dietro un sorriso buonista: così una videocamera si trasforma in un fucile e una sala d’audizioni in un luogo di tortura dell’altro, in una micro-fabbrica di narrazioni post-coloniali tutt’altro che dure a morire. Nel corso della performance, il pubblico assume il ruolo di una giuria cinematografica (e cioè oculare, visiva), in nome della quale l’intervistatrice pungola l’attore tunisino con sempre meno ironia e sempre più crudeltà. Uno degli apici di questo tribunale dell’immaginario occidentale si ha quando, improvvisamente, la giuria di spettatori si trasforma in pubblico da talk televisivo (luogo per eccellenza di deviazioni narrative): siamo chiamati a partecipare alla grande recita occidentale, a sperimentare un linguaggio di parole e di figure che credevamo innocente, a giocare con il corpo e con le parole di Rabii come se fosse un pupazzo senza identità, uno degli altri, un altro da noi. In questa distanza c’è in gioco tanto, troppo per non rimanere scossi a fine spettacolo.
Pop-up Civilisation di Effetto Larsen è la performance più partecipata. Il pubblico stesso, guidato da Matteo Lanfranchi, entra in uno spazio ludico con un potere improvvisamente enorme: prendere decisioni su un paese colpito dalla siccità. Il disegno di un orizzonte condiviso dipinto sulle pareti circostanti e la creazione di un rito d’apertura introducono con efficacia e invitano l’assemblea alla massima libertà di pensiero. Ma quando questa libertà si moltiplica per tutti i partecipanti, il gioco si fa duro e complesso. Se Lanfranchi è un attento e sapiente tessitore di trame che uniscono e creano dinamicità nel nuovo gruppo politico, certamente meno controllata e rischiosa è la struttura dei dibattiti, la sia pure partecipata drammaturgia dialogica, che può portare a rapidi accordi o prendere derive teoriche lunghe, spesso preda di incomprensioni. La mancanza di qualche paletto o corsia più puntuale, però, non toglie al percorso e all’atmosfera di Pop-up Civilisation il fascino, l’impatto e soprattutto la sensazione con cui lo spettatore esce dallo spazio di sospensione: quella di uno scambio denso e rivelatorio, con chi fino a poco tempo fa era un perfetto sconosciuto e con cui si condivide in ultimo una responsabilità. Una responsabilità che oltrepassa i confini del gioco performativo.
Prendere le distanze da noi stessi non vuol dire dimenticare chi siamo. Nel caso di FAROUT è successo semmai il contrario: vedersi da un altro punto di vista, ri-abitare diversamente la realtà, smontare le nostre certezze, allontanarsi così tanto dalla Terra, implica un ritorno più consapevole, una coscienza più approfondita di noi stessi e di ciò che ci circonda. Dopo performance e arti partecipate, persino la vecchia metropoli accaldata ci sembra diversa.
Riccardo Corcione