di Bertolt Brecht
regia di Fabrizio Arcuri

visto alla Cavallerizza Reale di Torino nell’ambito di “Dappertutto è l’uomo! Brecht_Camp 2” _ 6-12 febbraio 2012

Respirare un po’ di Europa a teatro è sempre come prendere una boccata di aria fresca. Da una Milano che sembra – a giudicare dalle scelte dei più “stabili” cartelloni teatrali – chiudersi sull’offerta nazionale o muoversi su terreni già esplorati, guardare alla collaborazione biennale che ha unito la Fondazione del Teatro Stabile di Torino alla Volksbühne am Rosa-Luxemburg Platz di Berlino, dà subito la piacevole impressione di una progettualità di portata internazionale. Nato nel 2010 in seno al Festival PROSPETTIVA, il progetto si è articolato in un anno e mezzo di incontri, dibattiti, laboratori e approfondimenti sulla drammaturgia, portati avanti in modo congiunto tra i due teatri. Protagonisti dello scambio sono stati i due registi Fabrizio Arcuri, fondatore e direttore artistico dell’italiana Accademia degli Artefatti, e René Pollesch, autore e regista a lungo definito enfant terrible del teatro tedesco. La “palla al centro” è il Fatzer Fragment di Brecht, opera incompiuta del grande drammaturgo. I due spettacoli esito del gemellaggio, dopo essere stati presentati in gennaio a Berlino, sono arrivati anche alla Cavallerizza Reale di Torino, inseriti in un più ampio programma di iniziative e incontri. Sotto il titolo Dappertutto è l’uomo! Brecht_Camp 2 sono rientrate diverse forme di lettura e approfondimento del Fatzer, oltre a un convegno internazionale e uno spettacolo, con gli allievi della Scuola del Teatro Stabile, dedicato a Brecht.

Tra Torino e Belino, l’indefinita identità di Fatzer si moltiplica e prende forma, assumendo diverse spoglie; è dietro all’obiettivo della macchina fotografica di Franziska Hauser, che ha raccontato la città di Torino tra rovine e bandiere che rappresentano il potere, con gli ipotetici occhi di Fatzer, nella mostra Essere debole è umano e perciò deve cessare; è, nella stessa mostra, una donna che si muove senza meta in una Berlino cadente, protagonista del lavoro della fotografa Eva Frappicini; Fatzer assume poi identità molteplici nei cortometraggi della rassegna Norme per la rivoluzione; è una rockstar interpretata da un attore solo, nella lettura scenica che ne ha dato René Pollesch. è, infine “un’identità che riunisce in sé molteplici funzioni” e in quanto tale passa da un attore all’altro (ma potrebbe anche coincidere con il pubblico) nella regia di Arcuri. Fatzer, sembra voler essere il messaggio ripetuto da più voci nella rassegna torinese, è ognuno di noi, nella diffusa incapacità di scegliere quale sia il vero nemico e rimanerne in ogni caso vittima; nella volontà di ribellarsi e nella sopita ma permanente attesa della rivoluzione; nella necessità di opporsi all’ingiustizia cercando di allontanare i soprusi e la violenza; nel necessario ricorso alla violenza stessa come unica strada, forse, per raggiungere la libertà.

Nella versione per la scena di Fabrizio Arcuri, le 500 pagine di appunti scritte da Brecht tra il 1926 e il 1930, in piena Repubblica di Weimer, e riprese dal drammaturgo Heiner Müller nel 1978 in un “montaggio” pubblicato in Italia sotto il titolo La rovina dell’egoista Johann Fatzer, divengono lo sfondo di una vicenda che, muovendosi di pari passo alle riflessioni brechtiane, è del tutto attuale. Nello spettacolo Fatzer Fragments / Getting lost faster, scritto nella sua versione per la scena da Magdalena Barile con la traduzione e la consulenza drammaturgica di Milena Massalonga, teatro e realtà si richiamano in modo continuo, in un’alternanza tra i due livelli del racconto e della riflessione politica. L’approccio al testo si muove su un livello teorico e aperto in cui l’esplosione di una situazione economico-politica che minava la democrazia in uno dei periodi più bui della storia mondiale si sovrappone ai più oscuri scenari della realtà degli ultimi vent’anni. L’attesa e la necessità della rivoluzione, tema più che mai attuale – dai riots che agitano la Grecia alle rivolte che hanno acceso la primavera araba – si articola così sul doppio livello della riflessione e del puro teatro. La natura di per sé aperta del testo di partenza si riflette anche nelle scelte registiche che portano a uno sdoppiamento e una sovrapposizione tra realtà e rappresentazione, narrazione e interazione diretta con il pubblico, con alcune soluzioni che portano a un’invasione (fisica e non) dello spazio dello spettatore, rendendolo parte del discorso. Così avviene, ad esempio, nel corso dell’“Indagine sugli elementi fondamentali per determinare la rivolta”: tra questi non può mancare il divario economico tra classi sociali e paesi, ragione buona e sufficiente per rendere necessaria la rivoluzione. Italia, Grecia, Stati Uniti e Svizzera sono le nazioni (di oggi) individuate come esempi di una situazione congenita al rapporto tra i popoli (di sempre).

Il Fatzer resta un testo incompiuto, in cui la frammentarietà diviene carattere costitutivo dal quale è impossibile prescindere. È difficile allora ritrovare un ordine, anche nella trasposizione scenica, dove il rifiuto di una linearità del testo e la mancata individuazione di precise identità psicologiche sono sottolineati dalle scelte registiche di Arcuri, in pieno stile Artefatti. A partire dalla recitazione, che indugia sull’identità dell’attore/personaggio (inconfondibile lo stile di Matteo Angius), fino allo sdoppiamento dell’immagine e dei punti di vista, nelle scene agite sul palco e simultaneamente proiettate sotto forma di video, offrendo al pubblico uno sguardo ravvicinato sull’azione. E ancora, nella moltiplicazione del personaggio di Fatzer, di cui si passano il testimone tre diversi attori nel corso di quelli che prendono le forme di tre diversi atti dello spettacolo.

La sala della Cavallerizza Reale del Teatro Stabile di Torino assume l’aspetto di un laboratorio aperto. L’assenza delle quinte porta in scena ogni elemento tecnico senza nascondere nulla, dal banco per il controllo delle azioni audio e video ai costumi e agli elementi di scena che attendono di essere utilizzati. Forse anche questo contribuisce a conferire allo spazio l’aspetto di una fucina in continua attività, nella quale le macchine della scenografia (inclusa una “macchina” vera, la carcassa di un’automobile scassata che si muove e ribalta in scena facendo la sua buona parte nel gioco degli “effetti speciali”) si muovono facendo fuoco e fiamme (finte) e fumo (vero). Sul quarto lato, dalla parte del pubblico, la borghesia immobile, che non vuole reagire per dare il via a un’attesa e necessaria rivoluzione.

Elemento di forza della scenografia, progettata da Gianni Murru, consiste in tre elementi cubici in ferro che avanzano e retrocedono lungo binari e ruotano su stessi, modificando le geometrie dello spazio. I quattro fronti di ogni cubo si aprono e si chiudono continuamente moltiplicando spazi e sguardi, divenendo pareti di una stanza, superfici di proiezione, o teli di un fondale scenico in cui tre lame di fuoco si congiungono nel marchiare indelebilmente la sagoma di un’Europa ferita. I “sottotesti” che vengono proiettati a scandire le scene assolvono a una funzione indicizzante e focalizzano l’attenzione sui caratteri dei personaggi o su alcuni aspetti della riflessione teorica del Fatzer. Un espediente con funzione didascalica che aiuta a fare ordine tra i pezzi esplosi dello spettacolo.

La complessità già insita nel testo, porta con sé un calderone di fatti e riflessioni in cui una maggiore semplificazione e qualche taglio avrebbero sicuramente giovato alla scorrevolezza dello spettacolo. Per quanto il dialogo con la contemporaneità sia sempre latente, non si riesce forse a delineare un confronto semplice e diretto che consenta di portare a compimento un effettivo e totale coinvolgimento dello spettatore. Tuttavia il livello resta sempre alto, in una coordinata sinergia tra le diverse voci, aiutata dal ruolo accessorio e allo stesso tempo sostanziale di musiche (composte ed eseguite dal vivo da Luca Bergia e Davide Arneodo dei Marlene Kuntz), effetti performativi (dei Portage) e video (di Lorenzo Letizia). In tempi di semplificazioni, ripetizioni e appiattimenti estetici oltre che teorici, anche di una ben orchestrata complessità va riconosciuto il merito.

Francesca Serrazanetti