Iniziamo dalla fine: «che cosa vuol dire mettere in scena il Faust?». Gli attori stessi se lo chiedono verso la conclusione dello spettacolo, e la chiosa «che i miti sono eterni non è vero» mette inequivocabilmente in discussione la retorica sull’attualità del classico, offrendo il fianco a un ampio, ipotetico dibattito che potrebbe sorgere a margine della rappresentazione.
Ora riavvolgiamo il nastro. Ad accogliere il pubblico del Teatro Astra di Torino, davanti a un sipario chiuso, ci sono un lungo tavolo che sfiora le quinte, sei sedie posizionate frontalmente alla platea (di cui una già occupata da un silenzioso e cupo Alessandro Bay Rossi) e una stampante appesa al soffitto che, a intermittenza, sputa fuori qualche foglio. Quando anche Alessandro Bandini, Chiara Ferrara, Jozef Gjura e Beatrice Verzotti entrano in scena e prendono posto, è subito chiaro che stanno dando vita a una conferenza. Eppure, fin dalle prime battute i relatori si delineano come una masnada di scapestrati capitati lì per caso: continuano a verificare il funzionamento dei microfoni in un loop che sfuma nel non-sense («Se sto zitta mi sentite?»), gareggiano in rutti, lasciano intuire una loro totale ignoranza rispetto al Faust, che pure viene definito a più riprese, con sarcastico ossequio, un capolavoro.
Il centro di questo talk fuori dagli schemi non è infatti lo spettacolo in sé, ma piuttosto il processo che ne ha determinato le scelte: qual è la ricetta per il successo teatrale? Attenzione agli anniversari, effetti ottenuti grazie al sound design, complessità interpretativa, riferimenti all’attualità sono alcuni degli ingredienti snocciolati in un’incalzante carrellata, sempre in bilico tra la pomposità del convegno e la cena delle beffe. Chiude l’accurato vademecum l’indicazione di assecondare i gusti del pubblico raccontando una storia che tutti capiscano, «di una semplicità incommensurabile»: quasi un disvelamento dei trucchi del mestiere, con cui si preannuncia il modus operandi che la regia di Leonardo Manzan, in tandem drammaturgico con Rocco Placidi, ha adottato per portare in scena il testo di Goethe. Anche quando fa il suo ingresso Paola Giannini, un Mefistofele energico e dalla postura irriverente, si continua ad essere sballottati tra una boutade e un’invettiva, tra momenti di puro intrattenimento e frammenti di riflessione: diventa presto chiaro che la trama e i personaggi dell’opera saranno ridotti a flebili echi dell’originale. Lo schema suonerà familiare a chi ha visto il fortunato Cirano deve morire (spettacolo vincitore del Bando Biennale College 2018): in quel caso, tuttavia, i nuclei tematici del testo di Rostand – smontati e decostruiti in una vivace drammaturgia rap – si ricomponevano nella seconda parte dello spettacolo regalando allo spettatore un inaspettato sprofondamento verticale sui nuclei di amore, amicizia e tradimento. In questo Faust, invece, manca del tutto la pars construens: il classico evocato resta un insieme di allusioni, un prisma di polemiche, un semplice pre-testo. Il celebre Dottore (interpretato da un ottimo Bay Rossi) incarna qui la figura del regista, o meglio un conglomerato delle storture di un intero sistema, quello di produttori e teatri stabili; l’atto di comporre un cartellone teatrale viene rappresentato come un grande Monopoli con carte e dadi, in cui l’imprevisto “Gabriele Lavia” costringe a stare fermi un turno, in cui lo scambio di una Medea o di un’Antigone aumenta il punteggio, ed è consigliabile calare la carta “trilogia”.
La rocambolesca sfida lanciata dallo spettacolo si incaglia in almeno due contraddizioni. Il Faust – spettacolo realizzato grazie al sostegno di tre prestigiosi coproduttori – vorrebbe demolire una struttura in cui è di fatto inserito a pieno titolo: e ricade così nello stesso paradosso di quei post polemici pubblicati sui social Meta che si scagliano contro la dittatura dei colossi della Silicon Valley mentre ne arricchiscono le economie. Manzan sembra, in secondo luogo, attaccare un sistema che non fa altro che nutrire sé stesso, anche a costo di svendere la professionalità degli attori o di mascherare mere logiche commerciali dietro una presunta attenzione alle esigenze del pubblico: e tuttavia, una drammaturgia costruita da una parte su dimostrazioni virtuosistiche, dall’altra su una fitta rete di allusioni e di strizzatine d’occhio ad personam non valorizza gli artisti e risulta poco rilevante fuori dalle ristrette cerchie degli addetti ai lavori.
Così, il sipario che resta chiuso per l’intera durata del Faust diventa emblema di un’occasione mancata: Manzan non si prende la responsabilità di occupare, neppure metaforicamente, il palcoscenico che ha disposizione, e relega il talento e la versatilità dell’intero cast ad una girandola di sketch che – come una ruota che gira veloce ma non procede – non riescono mai ad affondare davvero il colpo. L’ansia di stupire e provocare, come un insidioso Mefistofele, sembra tenere in ostaggio il talentuoso Faust/Manzan, distogliendolo da ciò che certamente potrebbe fare: un buono spettacolo che non parli, ancora una volta, di teatro.
Nadia Brigandì, Francesca Rigato
in copertina: foto di Manuela Giusto
FAUST
tratto da Faust I e II di Johann Wolfgang von Goethe
di Leonardo Manzan e Rocco Placidi
regia Leonardo Manzan
con Alessandro Bandini, Alessandro Bay Rossi, Chiara Ferrara, Paola Giannini, Jozef Gjura, Beatrice Verzotti
scene Giuseppe Stellato
music and sound Franco Visioli
light designer Marco D’Amelio
costumi Rossana Gea Cavallo
fonico Filippo Lilli
datore luci David Ghollasi
macchinista Giuseppe Russo
assistente scenografa Caterina Rossi
sarta di scena Benedetta Nicoletti
aiuto regia Virginia Sisti
collaborazione organizzativa Elisa Pavolini
produzione La Fabbrica dell’Attore-Teatro Vascello, TPE – Teatro Piemonte Europa, LAC Lugano Arte e Cultura
in collaborazione con Teatro della Toscana – Teatro Nazionale
si ringrazia per la collaborazione Associazione Cadmo