Una conversazione con Federico Bellini (Forlì, 1976) sul ruolo del dramaturg come detective, sull’innovazione come tensione, sulle differenze tra il teatro tedesco e quello italiano, su Wilde, Jens Hillje, su Lynch, su Netflix, sull’Hamlet di Antonio Latella e su quale, in fondo, sia la domanda fondamentale da porsi perché il teatro resti vivo.
All’edizione della Biennale Teatro dedicata alla drammaturgia, tu e Antonio Latella parlavate spesso di “drammaturgo”, di “autore” e di “dramaturg”. Giusto per fare chiarezza, qual è la differenza?
Devo essere sincero: non mi piace la parola dramaturg, perché è di importazione. Uso “drammaturgo”, e mi ritengo un drammaturgo, ma in realtà tecnicamente sono un dramaturg, e solo a volte sono autore – se intendiamo come autore colui che in sostanza propone un testo inedito. Tutti i testi che ho scritto come autore con Antonio sono stati fatti all’estero – come Zorro e Wonder Woman – mentre in Italia ne risulta solo uno, cioè Caro George, del 2010, su Francis Bacon. La grande differenza tra drammaturgo e autore è che l’autore va rispettato fino in fondo. Prendi per esempio la prima rappresentazione di un testo. È un momento delicato: il pubblico deve ascoltare quel testo per come è stato scritto dall’autore.
D’accordo, il termine non ti piace: ma cos’è un dramaturg?
Il dramaturg è una figura chiave della scena tedesca. Nei teatri berlinesi ce ne sono anche quattro o cinque, e ognuno di loro si occupa di un lavoro specifico: il rapporto col pubblico, con la stampa, il taglio dei testi, l’accompagnamento al regista… sono tantissime cose! In Italia in questo momento è una figura ibrida: e neanch’io, onestamente, ho ben capito cosa faccia. So che resta confinata al testo – all’adattamento del testo – ma questa è appunto solo una accezione possibile del termine “dramaturg”. A volte un dramaturg quando lavora all’estero non interviene proprio sul testo: può per esempio spiegare agli attori qual è l’origine del testo, quali sono le caratteristiche dell’autore, e fare confronti con gli altri spettacoli che sono stati messi in scena. Fare, diciamo, una mappatura dell’opera.In Austria, per The Importance of Being Earnest con la regia di Antonio, ho creato una sorta di mappatura di tutte le opere visive, pittoriche, a cui Wilde faceva riferimento. Ho cercato di spiegare Wilde agli attori attraverso le posture, i movimenti, i gesti presenti nella pittura; poi ho dedicato un tempo alla discussione sulla vita dell’autore. A volte ce ne dimentichiamo, ma tutto deve partire da lì: da un’indagine approfondita sull’autore.
Portaci nell’officina: che tipo di lavoro avete fatto sul testo di Wilde?
Siamo partiti dalla ricerca iconografica, come ti dicevo. Non per portare gli attori a replicare il gesto pittorico, ma per tracciare una cronistoria dell’ispirazione di Wilde. Il mio compito era mettere in campo le fonti dell’autore, perché solo attraverso queste puoi cogliere alcuni passaggi del testo altrimenti incomprensibili. Poi bisogna fare i detective. Cioè andare a cercare tutti i riferimenti – e il teatro di Wilde, come anche quello di Shakespeare è una miniera – di cui si è smarrito il significato: sono sempre degli indizi di altro. Ti faccio un esempio. Nell’Amleto (atto II, scena 2, n.d.r) si legge che dei nuovi attori «si sono presi Ercole e il suo carico» («Hercules and his load»). Cosa significa? Se vai ad analizzarlo scopri che Ercole che regge il mondo era il simbolo del Globe Theatre: dunque Shakespeare sta polemizzando con i giovani seguaci di Marlowe che, appunto, si stanno prendendo il Globe (lasciando fuori gli shakespeariani).
In Wilde questo aspetto è sorprendente. Nei suoi testi ci sono continui riferimenti a persone che conosceva, oggi incomprensibili se non si compie una ricerca su questi aspetti: bisogna mettere nella condizione il pubblico di capire qualcosa, oppure è meglio tagliare! The Importance of Being Earnest è un testo a due livelli: uno che può essere comprensibile a tutti, più popolare, e uno che invece si rivolge solo alla sua cerchia, a chi lo frequentava. Wilde parla su due piani e ne risulta un testo che da un lato è una commedia, dall’altro è terribile: è una storia spietata di abbandono e di incesto, che spesso viene annegata nelle freddure. La storia di due uomini che molto probabilmente si frequentano sessualmente e che alla fine scoprono di essere fratelli. Poi c’è il finale aperto, in cui si dice che le due coppie si sposeranno, benché Wilde non faccia vedere il matrimonio. Non sai se è vero. Per decifrare questi strati è fondamentale il lavoro da detective del dramaturg.
Che differenze ci sono tra l’estero e l’Italia rispetto a questo lavoro di detective?
È la stessa cosa. La differenza è che in Italia è molto più difficile far passare la figura di un dramaturg che non si occupa direttamente del testo e che ha invece il compito di raccontare una vicenda biografica e personale. È difficile far capire – persino agli addetti ai lavori – che il dramaturg è anche colui che racconta cosa ha significato mettere in scena per la prima volta un testo, che racconta il tipo di reazione che ha avuto il pubblico al suo debutto. Prendi Aspettando Godot. La prima volta che viene messo in scena a Parigi si svuota il teatro e viene insultato Beckett. Oggi nessuno uscirebbe da teatro con Aspettando Godot, perché è un’opera storicizzata. Invece è importante chiedersi: come possiamo produrre, oggi, la stessa reazione che ci fu quando Beckett lo scrisse? Se non tieni conto della storia del testo, finisci per svuotarlo. Se si vuole seguire questa strada, la mole di lavoro è tanta. Ad esempio, quando con Antonio abbiamo lavorato su Fassbinder, abbiamo letto tutto di lui: tutto quello che ha fatto, tutto quello che ha scritto, tutto quello che ha filmato. Tantissimo materiale. Credo che il testo teatrale, in fondo, sia l’ultima cosa. I tagli può farli anche il regista, che ha più sensibilità rispetto alla scena. O gli attori stessi possono tagliare il testo se si accorgono – per come lavorano sulla scena – che portano già quello che il testo dice, e che non c’è bisogno di dirlo due volte.
Prima parlavi del dramaturg come figura istituzionalizzata nel teatro tedesco. Ci sono delle storture in quel sistema?
È una domanda difficile. In generale penso che più occhi vedano meglio di due o quattro. Avere più feedback aiuta molto, ti aiuta soprattutto a dire quello che vuoi dire. Spesso infatti si è ridondanti e non ce ne si rende conto. Quando lavori in Germania, durante tutte le prove sei affiancato da un dramaturg ma poi, l’ultima settimana, vengono a trovarti tutti gli altri dramaturg del teatro e il capo dramaturg, che può decidere di tagliare intere pagine del testo o chiederti di rimettere mano all’allestimento. Questo perché in Germania agisce una concezione di innovazione tutta diversa da quella italiana. Lì una produzione non può fare a meno di competere – ecco un termine aziendale – con altre produzioni. Non solo in termini di pubblico, di numero di spettatori, ma anche in termini di innovazione: «cosa porti tu di nuovo?».
La domanda centrale, e che a me ha sempre colpito moltissimo, è: «Di che cosa parleranno gli spettatori in metropolitana?». Che sembra stupida, ma è invece pazzesca. Ho visto spettacoli perfetti stroncati perché erano inutili, perché non portavano nulla oltre a quello che già sappiamo. Perché erano solo allestimenti. Ecco, il concetto di “allestimento” è importante: il tuo compito come artista è portare qualcosa di nuovo, un marchio, qualcosa che non ci si aspetta, non “allestire” il già noto. Faccio un esempio. Noi siamo stati selezionati al Theatertreffen con uno spettacolo che si chiamava Dante<>Pasolini. Eine göttliche Kömodie. Quello spettacolo al debutto era stato fischiato dopo cinque minuti. Gente che usciva, che mostrava una copia della Divina commedia al pubblico in sala… così tanta confusione da temere l’attore dovesse interrompersi da un momento all’altro. Proprio per queste reazioni ci ha invitato il Theatertreffen! Bello o brutto che fosse, per il pubblico era successo qualcosa, e questo era l’importante. Lo spettacolo di Florentina Holzinger, per esempio, Ophelia’s Got Talent (adesso alla Volksbühne di Berlino) ha un successo clamoroso e ha suscitato un astio feroce. In Italia non andrebbe nemmeno nello spazio off più spinto: è un altro mondo. Invece uno spettacolo come quello di Holzinger dovrebbe essere in cartellone anche in un grande teatro italiano, e io credo che il pubblico non lo rifiuterebbe. Ne nascerebbe sicuramente qualcosa, magari una contestazione, una separazione, ma così il teatro è vivo, altrimenti muore!
Questo approccio prevede forse uno spettatore colto: uno spettatore al quale non puoi riciclare certe strutture, certi linguaggi. Lo spettatore italiano è pronto?
Penso che in Italia stiano prendendo piede molto velocemente alcuni modelli da altri contesti teatrali. Forme di non-narrazione che altrove sono state sviluppate in tanti anni, e già ampiamente digerite: qui invece arrivano a un pubblico ignaro di quel percorso inaugurato con Insulti al pubblico di Peter Handke. Però non bisogna dimenticare che siamo aiutati da Netflix e dalle serie, già andate in questa direzione. Un certo cinema, certe serie tv, si muovono sicuramente in direzioni che potremmo etichettare come post-drammatiche. Certo teatro italiano è rimasto legato a vecchie concezioni della drammaturgia, ma la realtà ha in qualche modo preso il sopravvento: basta appunto accedere a Netflix per capire che si stanno diffondendo forme di narrazioni diverse da quelle tradizionali, del teatro borghese, dai personaggi. Penso che il pubblico sia più pronto ai nuovi linguaggi di quanto si pensi.
In tutto quello che dici rimane centrale il concetto di innovazione. Credi che la novità sia un valore a prescindere?
L’innovazione non è un valore assoluto. L’innovazione è un tentativo. Magari oggi può essere innovativo restituire un testo classico, ma bisogna essere molto consapevoli di quello che si sta facendo. Penso – come ho cercato di fare per esempio col bando Futuro Passato – che dobbiamo sforzarci di uscire dalla comfort zone: ci sono modalità di racconto diverse che abbiamo il dovere di esplorare. Penso ancora a certe serie, come Dark o Mr. Robot: sono destrutturate nella forma, nella narrazione, e sono scritte in modo eccelso. Il maestro di tutti è David Lynch, ovviamente. Non si può far finta che non sia esistito Lynch. È esistito non solo per il cinema, è esistito per il teatro, per l’arte contemporanea, per la musica. Una volta che hai visto Mulholland Drive, Inland Empire o Twin Peaks, cioè una volta che hai visto come altro si può raccontare, puoi proseguire a fare il tuo mestiere come se non fosse successo niente?
Parliamo della Biennale Teatro, di cui a tutti gli effetti sei stato dramaturg durante la direzione di Antonio Latella (2017-2020). Una volta mi hai raccontato che per preparare la Biennale passavi un anno a guardare video di spettacoli sconosciuti provenienti da tutta Europa.
Tutte le Biennali fatte con Antonio hanno avuto la caratteristica dello scouting. Il compito è stato quello di scoprire realtà sia internazionali sia italiane che avessero una possibilità di ribalta a Venezia, e abbiamo portato quasi tutte prime italiane. Si trattava di Biennali tematiche: mettevamo al centro alcuni ruoli, e i Leoni d’oro e d’argento sono stati assegnati a varie figure professionali: dal sound designer, al pedagogo, allo scenografo. Figure importantissime, che non salgono mai alla ribalta del processo creativo.
Non a caso siete stati i primi in Italia a dare un premio importante a un dramaturg: Jens Hillje.
Jens è un punto di riferimento fondamentale. È stato uno dei vertici della Schaubühne di Berlino, insieme a Thomas Ostermeier e Sasha Waltz. Poi è stato co-direttore del Gorki Theater, dove ha promosso una programmazione incredibile, ha creato un pubblico che non c’era. Se vai al Gorki incontri spettatori di qualsiasi nazionalità, un pubblico che non pensavi neanche andasse a teatro, tutto giovane. Per come fa il curatore, e per come lavora sul pubblico, è uno dei riferimenti centrali per chi svolge questo lavoro. Fin da giovane ha lavorato in questa prospettiva, non avendo mai paura. Nei primi anni di direzione condivisa della Schaubūhne – Ostermeier aveva solo 28 anni, impensabile in Italia – sono stati un rischio: il teatro si è inizialmente svuotato, poi si è riempito di nuovo. Non si era abituati a vedere Ibsen trattato in quel modo. E tuttavia sono riusciti a creare un fenomeno di appartenenza da parte del pubblico. Jens ha veramente rivoluzionato il teatro. Nell’intervento che ha fatto in Biennale in occasione della premiazione è stato straordinario: ha ricostruito il ruolo del dramaturg.
Magari qualcuno l’ha ascoltato, a Venezia. E speriamo che nasca anche qui una vera discussione sui ruoli, a partire da quello del dramaturg.
Sai, in definitiva non credo sia tanto una questione di ruolo del dramaturg, manca proprio un’interrogazione fondamentale: «Cos’è il teatro?». Questo forse dobbiamo chiederci. Cosa dev’essere il teatro? Cosa dovrebbe essere nel migliore dei mondi possibili? Si tratta di decidere veramente che cosa vogliamo dal teatro. Se vogliamo intrattenimento o se vogliamo cultura.
Jacopo Giacomoni
in copertina: Hamlet, regia di Antonio Latella, Piccolo Teatro, Milano, foto di Masiar Pasquali