Santiago de Compostela _ 28.01.2016 – 13.02-2016

Il Festival Escenas do Cambio, andato in scena a Santiago de Compostela, fascinosa ed estrema punta della Galizia, in Spagna, trae origine dall’idea labile quanto liquida, propria della nostra contemporaneità, del transito: festival di inverno di teatro, danza e arte in azione, nasce nel 2015, con l’idea di accogliere compagnie artistiche di danza e teatro, un po’ come “aves migratorias”, uccelli migratori in viaggio, alla ricerca di una tappa per sostare. Santiago è divenuta così luogo intermedio tra America, Africa ed estremo Europa, il “nido di passaggio” per ripensare una nuova geografia scenica.
Il festival si è di fatto riconfermato quest’anno come la prova ben riuscita della prima edizione dell’anno scorso che aveva visto transitare artisti differenti: dai portoghesi Borralho e Galante, ad Alessandro Sciarroni, a Lola Arias, a Israel Galvan, a Roger Bernat, per citarne alcuni. Nomi di una certa caratura, avevano “dato il la” a “un festival di teatro indipendente che crede nel lavoro con le comunità e nel lavoro di strada, ma allo stesso tempo nel lavoro di sala e nello spazio teatrale come un luogo di mutamento”.

Escenas do Cambio, dal gallego Scene in mutamento, si propone, di nome e di fatto, come un luogo altro, deputato ad accogliere lavori artistici differenti, uniti dal denominatore comune della sperimentazione. Un festival-ricettore, dunque, che Pablo Fidalgo, suo direttore artistico oltre che drammaturgo e curatore-poeta, definisce come “un corpo che non sa bene quel che diventerà, disconosce il suo scopo ultimo ma, nella sua intima e profonda ricerca, attraversa molteplici forme”.
La programmazione, per una durata totale di quattordici giornate, ha conosciuto lavori di compagnie artistiche differenti, che si inseriscono nella scena nazionale, europea ed internazionale, dalla Galizia, all’Africa, al Portogallo, alla Francia, alla Germania, fino ad arrivare all’Argentina e al Messico. Formazioni artistiche che hanno dato vita a proposte creative unite “da un’idea di fragilità, di viaggi, di gesti politici, di contraddizioni”: da Tijuana della compagnia Lagartijas Tiradas al sol, profonda ed acuta riflessione sul salario minimo in Messico; a Europa na casa (Home visit Europe) della formazione berlinese Rimini Protokoll, spettacolo ambientato in una casa di Santiago, ogni sera differente; a Cédric Andrieux e Veronique Doisenau di Jérôme Bel; al flamenco vibrante di Rocio Molina e Rosario La Tremendita con Afectos; e ancora, Barrunto di Patricia Caballero, Mordedores di Lucía Russo e Marcela Levi, Le Cargo di Faustin Linyekula e Who will save me today? di Janet Navás fino ad arrivare ai lavori sull’idea di corpo indisciplinato, proposti da alcune compagnie africane tra cui Ottof di Bouchra Ouizguen/Compagine O. e Jaguar di Marlene Monteiro.
Il festival, accanto alla programmazione degli spettacoli, ha voluto dare spazio anche ad alcuni percorsi tematici formativi con il titolo di Contar para olvidar (Raccontare per dimenticare) condotti alla studiosa Isabel de Naveràn e dalla coreografa Idoia Zabaleta, per riflettere attorno al concetto controverso di “ricostruzione”. Il pubblico ha inoltre avuto la possibilità di dialogare con le compagnie artistiche, in occasione di alcune conferenze proposte durante le giornate di festival, tra cui Sobre performers descontextualizados y audencias por control remoto, con Stefan Kaegi, Afectos, política agonística y prácticas artísticas, con Chantal Mouffe e Veracruz, nos estamos deforestando o cómo extrañar Xalopa con Luisa Pardo della compagnia Lagartijas Tiradas al Sol.

Sarà forse per la nomea storica di Santiago come “finis terrae”, creduta un tempo il confine oltre cui il nulla attraversava il mondo, ma, la Cidade da Cultura, “la cittadella della cultura”, vero e proprio centro nevralgico del festival, rappresenta simbolicamente un estremo, il confine che separa da quel che ci si lascia alle spalle, per addentrarsi in un terreno sconosciuto e poco prevedibile. Si tratta di una visione che non si discosta troppo da quello che Pablo Fidalgo chiama come agujero, ovvero un buco posto al centro della struttura stessa, una costruzione mastodontica in cemento, disorientante e incompiuta, con una parte che giace, di fatto, in un completo stato di abbandono. Scrutandola per la prima volta, distaccata dal centro abitato di Santiago, posta in cima al monte Gaiás, pare di avvicinarsi più a uno straniante quartiere-collina del futuro: inevitabile la sensazione di trovarsi in un non-luogo, avvolti da una strana sospensione spazio-temporale.

Eppure, proprio l’agujero rappresenta la possibilità, nelle parole di Fidalgo, “di creare un ecosistema differente, creato nelle rovine umane, in un luogo devastato dal passo dell’uomo ma che svela, al tempo stesso, come anche la devastazione possa produrre luoghi abitabili, in un paradosso difficile da assumere, ma reale come la vita stessa”. Uno spazio liminale, dunque, aperto ad un pubblico volutamente “indisciplinato, attivo e trasformatore che sa e non sa quello che vuole: un pubblico che pone domande e cerca l’incontro”.
“Non è facile riuscire a gestire tutto il lavoro – confida Pablo Fidalgo– ci vogliono molte sinergie culturali ed economiche per poter proporre un festival di queste dimensioni. Ma credo che il fatto di trovarci qui per il secondo anno consecutivo sia un fattore indispensabile e determinante per la scena galiziana, prima ancora che spagnola. Il pubblico ha la possibilità di vedere spettacoli che mai prima transitavano nella punta estrema della Spagna, creando una sorta di amplificatore della visione rispetto alla scena contemporanea nazionale e internazionale”.

Colpisce, di fatto, come il festival abbia in certo modo tentato di favorire, oltre alle proposte sceniche internazionali ed europee, un lavoro a stretto contatto con le comunità della città di Santiago, puntando su un valore fortemente pedagogico della pratica scenica. Ne sono un esempio le produzioni della stessa Cidade da Cultura, Insulto ao público di Peter Handke ad opera degli artisti galiziani Uxía Vaello e Borja Fernández; don Juan di Voadora, un progetto realizzato con persone anziane; Os Eidos di Idoia Zabaleta, una passeggiata lettura proposta dalla città Santiago fino ad arrivare alla Cidade da Cultura. Escenas do Cambio, seguendo questo percorso radicato alla territorialità galiziana che non delimita, ma estende a possibili visioni globali, ha inoltre proposto il lavoro creativo di alcune giovani compagnie galiziane tra cui Ensaio Amor di Nuria Sotelo e Cara pintada e Who will save me today di Janet Novás. “Attualmente in Spagna – aggiunge Pablo Fidalgo – per una giovane compagnia di teatro non è facile trovare uno spazio per presentare i propri lavori. Escenas do cambio tenta di creare una finestra, una geografia possibile, una globalità per cui vale la pena combattere, un interrogare le frontiere e i confini per rafforzare il pensiero e identità distinte”.

“Un festival può e deve essere fragilità e confusione”, può e deve essere un luogo in cui si tenta di capire, si osserva, ci si interroga. E come suggerisce sempre Fidalgo “è anche lo spazio che crede che dire no a molte cose, come allo spettacolo, al virtuosismo, alle trasformazioni, alle magie, al fare credere, significhi dire sì a molte altre”. Tra i sì di Escenas do cambio figurano la scommessa di proiettare un non-luogo, nella ricerca, nell’ascolto del mutamento; c’è anche l’estremo, il confine come origine, come apertura e incrocio tra forze pronte ad accogliere un ripensamento scenico; e c’è la capacità di lasciare che qualcosa di imprevedibile accada, trattenendo un po’ di visibile dentro quell’agujero, grazie alla forza di chi “non dimentica nulla”.

Carmen Pedullà