Nella piccola cucina del Lavoratorio, davanti a una tazza di caffè che riesce a mettere subito chiunque a proprio agio, Gianni Farina ci ha regalato una riflessione su cosa sia oggi il teatro. E ci ha raccontato l’arte dei Menoventi.
Come siete venuti a conoscenza di Entertainment e che cosa vi ha affascinato del testo di Ivan Vyrypaev?
Ho incontrato Vyrypaev prima di aver letto Entertainment: ero a Ravenna, a un convegno organizzato dal Teatro delle Albe, durante il quale Teodoro Bonci Del Bene, che ha tradotto il testo, faceva da interprete all’autore russo, invitato a parlare del suo lavoro al pubblico italiano. All’inizio mi è sembrato che le idee di Vyrypaev su cosa significasse fare teatro fossero così categoriche da non lasciare spazio al pensiero altrui, e questo mi respingeva. Mesi dopo, ho confessato a Teodoro queste mie perplessità, ma secondo lui si era trattato solo di ironia, un’ironia russa che non ero riuscito a cogliere. Soltanto Tamara (Balducci, ndr) poteva convincermi a leggere un testo di Vyrypaev, dopo quell’incontro sfortunato. Ma per fortuna ha insistito! Mentre leggevo Entertainment, mi stupivo di come un autore che non conosceva i Menoventi avesse potuto scrivere un testo perfetto per noi e per i dispositivi che ci contraddistinguono. La coincidenza era sorprendente.
Quali corrispondenze avete trovato tra il testo di Vyrypaev e la vostra arte teatrale?
Entertainment è un esempio perfetto di “periteatro”. Fu Piergiorgio Giacchè a coniare questo termine descrivendo la nostra poetica, volendo indicare quegli spettacoli che girano intorno all’evento teatrale in sé, mettendo in scena il contorno, la cornice e il contesto del teatro. Ad esempio, Invisibilmente, del 2008, vede agire due maschere, che temporeggiano a causa di un problema tecnico, in attesa di uno spettacolo che non avrà mai inizio. In Entertainment i protagonisti sono gli spettatori che vanno a teatro, non il teatro: si sviluppa mettendo in risalto la cornice e non il cuore della faccenda.
Il manifesto con il quale vi presentate ai visitatori del vostro sito recita: «i limiti della rappresentazione ribaltano lo sguardo». Cosa vi affascina del confine tra realtà e finzione?
Quando fai della cornice il tuo oggetto di indagine, esplori il limite tra l’opera e il mondo che esiste fuori dall’opera. Nel caso del teatro, tra la rappresentazione e la realtà. Lavorando sulla cornice, puoi scoprire come i due mondi si confondano, al punto da mettere in discussione la realtà: ma se la realtà può essere messa in discussione con una rappresentazione, quanto è davvero reale? Fino a che punto è reale la realtà? Grazie al teatro cerchiamo di rispondere a questo interrogativo, perché sospettiamo fortemente che la realtà non sia poi così reale quanto siamo abituati a credere.
Come si è evoluto nel tempo il rapporto tra il vostro teatro e la dimensione spettatoriale?
Sono tanti gli esperimenti teatrali nei quali abbiamo giocato con quel “patto finzionale” che si instaura sempre tra gli autori e gli spettatori, divertendoci nel modificare più volte questo contratto durante uno stesso spettacolo. Abbiamo sempre cercato di prevedere le azioni e le reazioni del pubblico: in fondo, la platea è più comprensibile del singolo spettatore. Quindi abbiamo cambiato le regole del gioco in vari modi, intervenendo sia sul tempo, sia sullo spazio. Postilla, del 2010, è uno spettacolo per uno spettatore alla volta: nei primi istanti, una figura dal fare un po’ sospetto si avvicina allo spettatore, chiedendogli, se vuole vedere lo spettacolo, di firmare un modulo in cui cede la sua anima al diavolo. La domanda alla base del lavoro era: quanto è disposto a giocare lo spettatore? E cos’è, se non l’anima, il massimo che chiunque è disposto a perdere? Dopo una contrattazione, lo spettatore era libero di stracciare il contratto in cambio di qualcosa: mi domandavano cosa dare per riavere l’anima, e io rispondevo sempre «Sai tu quanto vale». Conservo ancora denti da latte, delle scarpe… Il resto delle trecento anime che mi sono state lasciate le ho messe in un raccoglitore che casualmente mi è stato restituito qui, al Lavoratorio, ieri sera.
Che ruolo assume la comicità nel teatro dei Menoventi?
È una trappola: nei suoi primi istanti, un nostro spettacolo tende a essere fortemente comico, in modo da scaldare gli animi degli spettatori e farli empatizzare con le figure buffe che popolano le nostre drammaturgie. Di solito, le cose che fanno ridere sono le mancanze, l’ingenuità di alcuni personaggi. Quando il pubblico inizia ad empatizzare con questi personaggi, repentinamente mostriamo la parte oscura di questa comicità e la risata finisce. In Invisibilmente lo schermo, sul quale alcune didascalie raccontano le azioni dei due personaggi, inizia così a descrivere anche ciò che fa il pubblico. Ecco che, mentre gli spettatori stanno ridendo, una didascalia recita «il pubblico ride» : diventa così chiaro quanto quella risata sia, in fondo, malata.
Tornando a Entertainment, quale valore assume l’intrattenimento oggi e che possibilità ha il teatro?
Oggi tutto è intrattenimento. Essendo cresciuto negli anni Ottanta, il mio modello di riferimento è Drive-In: è quello il mio concetto di entertainment. L’intrattenimento che ha formato il mio immaginario è lo spettacolo, mentre quello che mi interessa oggi è il teatro. Ho ancora molta fiducia nel lavoro culturale; forse la cultura non potrà fermare la nostra rapida autoestinzione, ma potrà rendere questi ultimi anni che ci restano un po’ meno beceri.
a cura di Sofia Mauro e Francesca Rallo
in copertina: ritratto di Gianni Farina, di Luca Del Pia
ENTERTAINMENT
una commedia in cui tutto è possibile
di Ivan Vyrypaev
con Tamara Balducci e Francesco Pennacchia
regia Gianni Farina
traduzione Teodoro Bonci del Bene
immagine Magda Guidi
voice over Consuelo Battiston
tecnica Luca Telleschi
organizzazione Marco Molduzzi, Maria Donnoli
logistica Greta Mini
comunicazione e promozione Maria Donnoli
produzione Le Città Visibili, E production/Menoventi
si ringraziano l’associazione L’Attoscuro e il Comune di Montescudo – Monte Colombo
Questo contenuto è parte dell’osservatorio critico Officina Critica #2