Ti saresti mai aspettato che Naufragio con spettatore, che debuttò nel 2010 a Catania, restasse uno spettacolo così attuale?

Questo lavoro non nasce dalla volontà di realizzare un’opera autonoma, ma dal lavoro fatto in sala per costruire, tappa dopo tappa, uno spettacolo intitolato “Odisseo”. Sono partito da Naufragio con spettatore per capire cosa potevamo raccontare dell’Odissea dei nostri tempi, quella nel Mediterraneo. Ovviamente non sono felice che la situazione sia rimasta uguale e che anzi sia peggiorata, ma sono contento che la mia opera continui a essere rappresentata ormai da undici anni: nonostante il sistema produttivo della danza e del teatro di oggi vada sempre più veloce, nel mio piccolo sono riuscito a scrivere e a mantenere vivo questo archivio di gesti.

Si legge che il nuovo spettacolo che vedremo in scena, Rifare Bach, è una delle prime coreografie non «legate al sociale» che proponi. Ci deve essere “impegno” nell’opera artistica?

Proprio ieri ho discusso di questo tema con il mio ufficio stampa, perché ho letto alcuni articoli dove si parlava della presunta mancanza di una tematica sociale nella coreografia in quanto “astratta”. Ma per me l’astrattismo non esiste: l’arte, come dice Baudelaire, deve «glorificare l’immagine ancor prima del significato», deve arrivare prima al cuore e poi al cervello. In effetti in questo lavoro io parlo di ecologia, ma in modo sottile. L’ambientazione e i suoni evocano proprio quella tematica: io metto sullo stesso piano Bach — che dovunque si trovi non disturba mai e a cui rendo omaggio in questo lavoro — e la natura, che è l’ambiente in cui prende vita la coreografia. Rifare Bach è una sfida, per la sua stessa impostazione coreografica classica, anche se non ha senso incasellare i diversi linguaggi espressivi: quello che conta è l’autenticità.

“Autenticità” è una parola importante nel tuo lavoro, in che senso?

Innanzitutto, tento di mettere in scena l’autenticità del gesto. Trattandosi di un’opera di finzione, la sfida è portare sul palco un movimento non ricostruito ad ogni costo, ma mostrato per ciò che è. Il pubblico non deve percepire il gesto come “mimetico”, ma come reale. Confesso che questo tipo di ricerca deve tanto alla mia terra, la Sicilia, che è un meraviglioso crogiolo di culture e che, con tutte le sue sfumature diverse, mi ha insegnato molto sull’autenticità del rapporto tra i corpi. Infatti, l’autenticità non sta solo nei gesti, ma anche nei corpi: nei muscoli, nelle ossa e nelle giunture. “Autenticità”, in questo caso, significa mettere in scena proprio quelle fragilità – tanto fisiche quanto psicologiche — che contraddicono un’ideale estetico di perfezione, ma ne definiscono uno di umanità.

A proposito del corpo, nel corso della tua carriera hai sviluppato il linguaggio MoDem, acronimo di “movimento democratico”; l’aggettivo “democratico” si può riferire anche alla fruizione della danza?

L’aggettivo non c’entra con la politica, ma come la politica è imperfetto: alla fine, infatti, l’ultima parola spetta a me; però si può considerare democratico perché lascio la libertà creativa ai danzatori. La democrazia verso il pubblico, invece, è assoluta: coi miei spettacoli non pretendo di dare delle verità, perché sarebbe poco autentico, ma cerco di mettere ciascuno nelle condizioni di pensare con la propria testa. Ho spesso l’impressione che il pubblico sia convinto di capire meglio un testo teatrale, ma in realtà la danza può essere compresa molto di più perché, senza dire nulla, si serve di suggestioni e sfumature per comunicare. Con il MoDem noi facciamo quella che a me piace definire “esegesi delle giunture”: cerco di far conoscere in profondità il proprio corpo ai danzatori, rendendoli consapevoli del loro potenziale, anche comunicativo.

Bettina Bernardi, Anna Farina, Giulia Troncatti, Giuditta Pistone

Foto di © Joakim Hovrevik


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