Rendere eterno ciò che si mostra e insieme si consuma nell’attimo in cui accade. È questa la sfida che il fotografo di spettacolo si ripropone quando si apposta, macchina pronta a scattare, sotto un palco, che sia per un concerto, per una performance di danza o per una messa in scena teatrale. Fotografia e spettacolo vivono in questo perenne stato di contraddizione: l’azione, che si compie e si rinnova a ogni rappresentazione, nella fotografia sembra rinnegare la sua natura transitoria; la fotografia, quando si affaccia nello spazio della rappresentazione, tradisce la sua vocazione alla realtà, e si contamina con la finzione. E ancora: uno scatto deve interpretare o semplicemente raccontare, svelare oppure custodire i segreti di uno spettacolo? L’obiettivo possiede la capacità di rendere bella anche una performance non riuscita? E quando si trova davanti a una messa in scena perfetta, sa come riprodurla? La fotografia non è piuttosto un mezzo inadeguato per ritrarre eventi, accadimenti, azioni? O forse è proprio questa sua inadeguatezza a rendere la sfida più affascinante? L’immagine che si genera da uno scatto, alla fine, è sempre un inganno, una finzione, nel caso dello spettacolo addirittura la rappresentazione di una rappresentazione.
Da queste provocazioni e dall’incontro con la fotografa Margherita Busacca e l’architetto Marcello Zagaria, con i quali il lavoro ha preso avvio ed è stato interamente condiviso, prende le mosse il Taccuino che vi presentiamo: un’indagine a più voci sul complesso rapporto che esiste tra un evento artistico e la sua riproduzione per immagini. Abbiamo lasciato che a rispondere alle nostre domande fossero, innanzitutto, proprio loro, i fotografi. Con riconosciuta perizia tecnica e acuta sensibilità artistica, nascosti dietro un obiettivo, si muovono tra attori, ballerini, direttori d’orchestra e musicisti, nei foyer come nei camerini, durante le prove o in mezzo all’adrenalina di una prima, dentro il teatro e fuori dalla scena. Nelle pagine che seguono troverete le loro riflessioni, gli spunti e le suggestioni sui temi che abbiamo sopra suggerito e sui quali loro stessi sono chiamati a confrontarsi ogni giorno. Al nostro tavolo di discussione abbiamo poi invitato critici e storici della fotografia: loro il compito di spiegare e dissipare alcuni dei nodi fondamentali, a livello sia storico che teorico, del rapporto tra spettacolo e immagine.
Secondo il semiologo Roland Barthes, il rapporto tra fotografia e teatro è saldo già all’origine di questa tecnica. Per Barthes, la fotografia non è nata dalla pittura ma dall’attore. O meglio, da una certa estetica teatrale tipica del finire del XVIII secolo. Alcuni degli inventori della fotografia e dei primi fotografi professionisti, Daguerre a Disdéri per esempio, avevano esperienza in campo teatrale, ma spesso anche le intenzioni con cui si effettuavano le prime immagini prendevano spunto dalle pose degli attori. Nei primi tempi della fotografia, in particolare, il distacco con cui venivano ritratti i personaggi sembra prendere spunto dalle teorie espresse ne Il paradosso dell’attore di Denis Diderot, mentre la tipica posa bloccata deriva dallo stile dell’attore inglese della stessa epoca David Garrick, celebre per il suo stile che andava verso il realismo e per le sue interpretazioni di Amleto e Re Lear che si discostavano dalla recitazione declamatoria dell’epoca.
Oggi molti tra studiosi, critici e giornalisti hanno chiara l’importanza, per la storia dello spettacolo, della fotografia di scena. Gli scatti di una messa in scena possono essere considerati parte integrante di una rappresentazione: ne perpetuano la memoria e ne garantiscono la diffusione anche a chi spettatore non ne è stato, per ragioni spaziali o temporali. È anche grazie agli scatti del fotografo che un regista può seguire l’evoluzione del proprio lavoro. E, ancora, è attraverso il materiale fotografico depositato negli archivi e nelle biblioteche che gli studiosi possono ricostruire la genesi, l’evoluzione e le caratteristiche stilistiche di alcune opere del passato. Senza dimenticare poi che spesso è grazie alla fotografia che uno spettacolo riesce ad attirare pubblico, o a conquistare appeal presso i media, incoraggiando, spesso e volentieri, la pubblicazione del comunicato sui tamburini.
Quello che fino a un decennio fa era un campo poco conosciuto, oggi è diventato materia di discussione, specializzazione e insegnamento per chi si avvicina al mondo della fotografia ma anche per chi, come “Stratagemmi”, si interessa di tutti gli aspetti, che coinvolgono una messa in scena.
In tutta Italia vengono organizzati corsi specifici sulla fotografia di scena, come quelli tenuti dal Centro per la Fotografia dello spettacolo di San Miniato, dall’Accademia della Scala o dallo Ied (Istituto europeo di design). Vengono anche banditi concorsi, come il premio Hystrio-Occhi di scena, di cui troverete una presentazione nelle pagine seguenti, mentre i lavori dei grandi maestri vengono ospitati nei foyer dei teatri o diventano protagonisti di antologiche, monografie, libri di testo, alcuni dei quali vengono citati dagli autori dei contributi che pubblichiamo.
Abbiamo diviso il lavoro in tre direttrici. La prima prende spunto dalla mostra fotografica Dentro il teatro, fuori dalla scena, realizzata con Margherita Busacca e Marcello Zagaria nell’ambito dell’ultima Festa del teatro svoltasi a Milano lo scorso ottobre e pone le premesse dei curatori all’analisi del tema. La seconda raccoglie le testimonianze e le riflessioni di fotografi, critici e storici della fotografia e si apre con un omaggio a Tony d’Urso, recentemente mancato, che con le sue istantanee e la sua sensibilità ha raccontato per immagini la storia dell’Odin Teatret. A ricordarlo sulle pagine di “Stratagemmi”, le parole inedite di Eugenio Barba e Julia Varley. Nella terza troverete un accenno ai percorsi formativi che preparano alla professione di fotografo dello spettacolo oggi in Italia.
Certo non abbiamo la pretesa, con questa nostra rassegna, di esaurire il tema o di rispondere in modo completo e definitivo alle domande che abbiamo posto sopra. Il tentativo è quello di offrire una prospettiva, un punto di vista ancora diverso a chi si occupa e si interessa di teatro. Per farlo, per capire qual è la vera natura del rapporto tra lo spettacolo e le immagini, questa volta siamo andati a cercare, nelle parole dei fotografi e degli studiosi interpellati, così come anche nelle immagini d’autore che pubblichiamo in un fascicolo a parte, quello che Barthes nel saggio La camera chiara chiama il punctum. Per il semiologo, è questo l’elemento dirompente di un’immagine, quello che possiede la chiave per attrarre o respingere lo spettatore. E riuscire a ritrarre il punctum non è il risultato di un’adesione a tutti i costi alla realtà, perché, come scrive sempre Barthes, “in fondo, la fotografia è sovversiva non quando spaventa, sconvolge o anche solo stigmatizza, ma quando è pensosa”.