Gianmarco Bizzarri_ redattore di A critic mess!
Noemi Bresciani_ coreografa e performer di Fragile
Desirée Sacchiero_ fotografa del collettivo Fragile Artists

GIANMARCO. Da cosa nasce la ricchezza di cui abbiamo visto un assaggio questa sera? Tra l’altro, vedo che siete tante: lavorate tutte insieme?

DESIRÉE. Sì, siamo tre fotografe, una drammaturga e quattro danzatrici: otto totali, un collettivo femminile. E proveniamo da paesi diversi. Milano, Bergamo, Bari… poi ognuno ha i propri lavori, il proprio mestiere parallelo.

NOEMI. Abbiamo costituito questo collettivo non tanto con l’idea di creare un’ulteriore compagnia o istituzione, ma come se fosse un territorio di gioco. Dal mio incontro con Desirée e con Carola Ducoli, soprattutto, è nata l’esigenza di trovare un luogo astratto – materialmente è sempre molto difficile trovarlo – in cui concederci di indagare il dialogo multidisciplinare tra fotografia, danza, corpo e perfomance: in ultimo è arrivata anche la parola, con Irene Petra. Non siamo una realtà istituzionale. Quando abbiamo tempo e modo, ci incontriamo, giochiamo: se si produce si produce, sennò fa niente. È un’idea fricchettona forse…

D. O forse ‘liquida’, no?

N. Sì, senza la volontà di produrre per forza qualcosa. Rimaniamo nel gioco, non c’è l’ansia del risultato a tutti i costi. Poi, certo, l’occasione permette di fare le cose: un incentivo anche piccolo, economico e di visibilità, che muove a produrre.

D. O comunque a creare cose nuove e a rimanere in continuo sviluppo. Non è detto che tra un anno possa esserci un videomaker e una contorsionista, o un musicista, nel nostro gruppo. La proposta che abbiamo fatto la settimana scorsa, all’inaugurazione della mostra Fragile Artists, è stata proprio questa: chiamare una musicista – un’altra donna – che non ci conosceva e che noi non conoscevamo molto bene, ed è stato uno scambio interessante, anche a livello performativo. O anche Nicolò, che ha curato l’illustrazione, è stato coinvolto perché gli interessava il progetto. O anche tu, se mi dici che hai voglia di scrivere un articolo su Fragile Artists…

G. È molto interessante quest’idea di contaminazione, come entra in gioco nello spettacolo che abbiamo visto? Nel momento della tua performance, qual era la necessità della fotografia? Il corpo non bastava?

N. La fotografia e, in particolare, il momento dello shooting, è stato fatto per necessità, perché l’ente che ti ospita chiede sempre delle foto in anticipo. Ho bussato alla porticina di Desirée, che già conoscevo, e le ho detto: “facciamo delle foto finte, sul terrazzo, con l’anguria?”

D. E io: “Sì!!!” [ridono].

N. Quel momento di shooting, per me, è stato molto arricchente in termini di senso. Il fatto che lei mi mettesse in determinate pose, anche per un tempo prolungato, scatenava inevitabilmente in me un immaginario, dei pensieri, delle azioni necessarie. E questa esperienza è stata utile nella creazione e nel montaggio delle azioni dello spettacolo. Poi abbiamo approfondito ulteriormente la contaminazione: l’installazione di manifesti è diventata una sorta di abitazione, un luogo per lo spettacolo. Per il resto, la performance è molto aperta: ho un ventaglio di azioni possibili e, in base a dove sono e a cosa succede, mi tengo aperta la possibilità di fare determinate cose. Ultimamente, siccome ci sono tante foto con la mia immagine, mi viene proprio il desiderio di dire: “ma a chi servono queste immagini?”. E, spesso, le distruggo.

G. Quindi non hai un percorso prestabilito?

N. No, è una ‘pesca’. C’è una struttura di base e poi è come se pescassi.

D. È molto duttile.

N. Sì, però la gamma di azioni è determinata. Ad esempio, non mi metterò mai a parlare, certe cose questo personaggio non le farà mai. Questa sera, in particolare, ho fatto un po’ la romantica e per l’occasione [l’inaugurazione della rassegna It’s a little bit messy ndr] ho riprodotto anche alcune immagini, alcuni passi degli spettacoli di Vittadini. Ma è soprattutto la fotografia, in Fragile, il mio punto di partenza per costruire il concatenarsi dei gesti: anche quando penso di fare un’azione, la concepisco come immagine fotografica e cerco di partire da quel luogo lì, per poi abitarlo.

G. Hai parlato di improvvisazione e di un ventaglio di azioni tra cui scegliere. In questa performance, però, hai disegnato anche un percorso evolutivo preciso. Quindi c’è una struttura che rispetti?

N. C’è una struttura ‘emotiva’ fissa, che parte dall’irriverenza e arriva alla resa. Lo sviluppo di questa struttura dipende però sempre anche dal pubblico e dal contesto. Quello di oggi era un luogo teatrale e per me è stato molto strano: nutrirsi della verità, del qui e ora, con un pubblico seduto e che ti guarda, è molto più difficile che per strada, dove il pubblico si concede di non essere necessariamente attento. Qui è una sorta di arena: per questo che, a un certo punto, mi sono bendata, per l’imbarazzo…

D. Lo facciamo anche noi, con la macchina fotografica: tendiamo a nasconderci dietro la macchina, al contrario delle attrici che – almeno in teoria – sono più spavalde e si mostrano in tutta la loro espressività. Questo è già un bel contrasto: coprirsi e scoprirsi, fino a scambiarsi i ruoli, perché poi siamo diventate ‘attrici’ anche noi. Con lo svilupparsi del progetto, ho avuto l’impressione che anche noi cominciassimo a dare il tempo ai movimenti. L’improvvisazione funziona con una grossa sinergia ed empatia, perché la comunicazione non avviene verbalmente – cosa di cui non sarei capace. Noemi sfrutta la mia immagine fotografica, io sfrutto il suo tempo e le do anche i miei tempi.

N. Infatti, in alcune performance, le fotografe diventano performer attive. In un lavoro che abbiamo fatto, dove ci sono due danzatrici-scenografe, nel finale ‘collezionavamo’ il pubblico al muro, come in una foto di gruppo. Le fotografe, dando il tempo con gli scatti, si posizionavano come soldati a fucilare – giocando un po’ sul doppio significato del termine “shoot” – e le danzatrici ‘morivano’. A Brescia è ‘morto’ anche qualcuno del pubblico, ne abbiamo ancora le foto.

D. È interessante, per una fotografa, l’idea di avere un tempo scandito per lo scatto. Poi si è aggiunta anche la scrittura…

N. Sì, è tutto in divenire: ogni creazione parte da un percorso diverso. Fragile è partito da un’idea performativa, per poi inglobare la fotografia per arricchirsi. Nowhere, invece, è partito da alcune interviste, che si sono trasformate in personaggi scritti, che le drammaturghe hanno poi consegnato alle fotografe con la richiesta di farne ritratti utilizzando le performer: da quei ritratti, poi, siamo partite a costruire la coreografia. Ma per capire la contaminazione basta pensare che qui, in sala, c’è qualcuno che mi riprende: se me ne accorgo, il mio corpo come cambia? Cambia la mia attitudine? Se le voglio mostrare qualcosa, lei capisce? Sono domande legate sia ai linguaggi, sia poi, necessariamente, all’identità. Il ritrarsi, che è un po’ il tema ricorrente dei nostri lavori, provoca proprio quella domanda: l’identità di cos’è fatta? Immagini, esperienza, niente? Esiste? A cosa serve?

G. Mi sembra di capire che questa collaborazione tra arti diverse abbia fortemente a che fare con il nucleo di significato di questo spettacolo, Fragile: un invito a divenire tutti attori, a mostrare il lato più ‘fragile’ della propria arte, a ribaltare l’obiettivo. Ho un’ultima domanda per Noemi. Nello spettacolo, ti sei concentrata su una tua personale fragilità, arrivando a toccare un tema – il desiderio di maternità – che è strettamente tuo: anche se contemporaneamente parli di lavoro collettivo e di gioco. Quale ritieni che sia il valore nel mettere in comune questo tuo desiderio?

N. Non è vero che i desideri non vanno detti. Dirli e condividerli, innanzitutto, è più appagante, ritrovandosi negli altri, che magari poi hanno lo stesso desiderio. Io credo semplicemente che il mio desiderio sia molto comune e quindi, in qualche modo, riconoscere questo desiderio, dargli una forma e condividerlo… Essere autoreferenziali, in qualche modo, indebolisce o rimpicciolisce. Ti allontana dalle persone a cui stai raccontando. Invece, arricchirsi dei punti di vista altrui può rendere collettiva anche un’esperienza individuale e personale. E così, a partire da una necessità intima, si può arrivare a raccontare qualcosa che riguarda tutti.

G. Mi stupisce sempre come l’identità non si comprenda mai chiudendosi in se stessi, ma aprendosi a qualcosa di totalmente diverso. E questo discorso si ricollega alla questione del collettivo…

N. Sì! E questo ti fa scoprire pezzi della tua identità che magari non conoscevi. Io credo che la mia identità sia fatta degli incontri con gli altri, dei riflessi. Resta da capire, però, qual è la struttura che tiene insieme tutti questi pezzi. E poi non sono capace di lavorare da sola… Forse è più semplice, richiede meno tempo, ma è più bello lavorare insieme, altrimenti vado a vivere su un eremo… [ridono].

A cura di Gianmarco Bizzarri e Miriam Gaudio

Fragile
performance di danza urbana
di e con Noemi Bresciani
visto il 28 settembre 2017_ Zona K