«I am rooted but I flow».
Virginia Woolf, The Waves
Si dice “fragile” ciò che si rompe facilmente, specialmente quando viene urtato. Easily destroyed, ended or made to fail: sono le espressioni inscritte sui pacchi quando vengono inviati per posta. Lomljivo, neotporno, nježno: è la vita degli immigrati. Con questa semplice comparazione fra sinonimi in inglese e in serbo-croato entriamo nel mondo bilingue della drammaturga Tena Štivičić. C’è però un’importante precisazione da fare: il serbo-croato è una lingua che ufficialmente non esiste più. Eppure vive altrove, nella memoria di coloro per i quali – come Štivičić e la sottoscritta – è stata la prima “casa”.
Tutti e sette i personaggi di Fragile! sono stranieri, provenienti chi dall’Europa dell’Est, chi dalla Norvegia, dalla Serbia, dalla Croazia, dalla Nuova Zelanda e dalla Bulgaria. L’ambientazione coincide con l’odierna Londra, che vediamo attraverso gli occhi degli immigrati e sentiamo attraverso un inglese in continua metamorfosi. La lingua parlata da questo gruppo costituisce un vero e proprio paesaggio linguistico, dove la componente dello spazio, quale luogo vissuto, attraversato e in cui si agisce, incide sulla sua conformazione. Furono Rodrigue Landry e Richard Bourhis a inaugurare, nel 1997, la svolta spazialista in sociolinguistica: nei loro studi si appropriarono della nozione di “paesaggio”, utilizzata dai geografi per definire l’ambiente naturale riconfigurato culturalmente, dove convivono elementi materiali, ma anche simbolici e storici, correlati alle rappresentazioni sociali e alle identità collettive. Allo stesso modo, si potrebbe dire che l’articolazione, il discorso e il diritto di replica costituiscono il conflitto centrale dell’opera di Štivičić. Il parlato dei personaggi è continuamente interrotto, a volte a causa di lapsus o errori, a volte perché assistiamo a scene nelle quali cercano di imparare nuovi termini e modi di dire. Štivičić crea uno spazio linguistico altro, che non è ancora vissuto, ma appena attraversato dal suo gruppo di immigrati, mettendo in rilievo la vitalità della lingua e la fluidità dell’identità che ne derivano.
Al centro del dramma ci sono le tensioni tra la giovane donna croata Mila e il barista serbo Marko. Entrambi lavorano in un nightclub di proprietà del cinquantenne bulgaro Michi. Mila è una cantante che sogna il musical, mentre Marko vuole diventare un comico. Mila ha una relazione con Erik, giornalista norvegese, mentre Marko inizia un rapporto con Gayle, artista e assistente sociale in un ostello per rifugiati di Londra. Erik ha vissuto la guerra in Bosnia degli anni ’90, dalla quale reca ancora un trauma che lo tiene legato a Tiasha, anche lei residente dell’ostello e vittima di un traffico di prostituzione.
Peculiari sono anche i luoghi dove accadono i vari incontri. Štivičić sceglie posti di passaggio come il bar, l’ostello, l’ufficio, l’aeroporto, oppure casuali appartamenti in affitto. Non c’è nessun rapporto duraturo e costante con questi ambienti, che si rivelano luoghi di transito, di lavoro o luoghi, come direbbe Gilles Deleuze, dell’intermezzo. È lì che si manifesta la vita degli immigrati.
La drammaturga sfugge consapevolmente a qualsiasi definizione che possa fissare i suoi personaggi in un quadro naturalista. C’è sempre un leggero spostamento che riguarda sia la loro caratterizzazione, sia il modo di abitare lo spazio e di conseguenza anche il tempo. In un saggio del 1994, Rosi Braidotti cerca di mettere in relazione due opposte immagini dell’Europa. La prima deriva da una lunga tradizione del pensiero occidentale riguardo l’identità nazionale basata sulla logica sedentaria del noi e loro (che raggiunge il suo apice durante l’imperialismo): l’identità in questione viene a stabilirsi secondo un modello, appunto, di sedentarietà. L’altra immagine è quella dell’Unione Europea, che si discosta da questa logica. «L’Europa si presenta come il progetto postnazionalista e rifiuta l’idea della potenza mondiale guidata da una forma di universalismo che ha comportato l’esclusione e il consumo degli altri», scrive Braidotti. L’Europa sta cambiando, ribadisce due volte Michi nel dipanarsi della drammaturgia. In che modo però sta cambiando?
MICHI: All this people will come to UK now, some to work, some to visit, some to try luck. All will think – easy, we are one now! But, haha, what a surprise, do you think England will say – welcome brothers, what can we do for you?
L’idea dello spazio e del tempo sono cruciali per comprendere come Fragile! metta in discussione un pensiero occidentale basato sulla ragione e sulla scienza. La nostra percezione del tempo che scorre linearmente è legata a una determinata idea di progresso e all’auto-affermazione che, nell’opera di Štivičić, viene emblematicamente rappresentata attraverso il grafico che si trova su un muro dell’ostello per gli immigrati:
This graph charts the usual progress of our clients. You see… the initial shot of energy upon arrival. ‘I can do everything. Whatever it takes, I’m on my way up!’ Then there is a sudden drop. Lack of energy, pessimism, defeatism. Nothing to worry about. Perfectly natural and short term. Then there is a slow but steady uplift. It’s longer, more real. Followed by another drop, once you are faced with practical difficulties. That can go on for a while but again, it’s only another natural phase. The intensity may vary from person to person, but these are all… steps… on the way to creating a happy and stable environment.
Né l’azione del dramma né i personaggi riescono mai a corrispondere allo schema disegnato sul grafico. Štivičić crea dei paradossi e delle discontinuità spazio-temporali che diventano altre possibilità per i personaggi: Erik parla contemporaneamente sia con Mila che con Tiasha, ma le due non si sentono tra loro; gli incontri accadono simultaneamente all’aeroporto, o nel bar e nell’ostello, dove il movimento temporale raggiunge il climax proprio nell’incontro con il defunto Erik. Anche se questo mescolamento dei livelli temporali e spaziali può creare un senso di disorientamento nel lettore, non vale lo stesso per i personaggi. Štivičić è attenta a creare un’architettura molto precisa, un modello interno di verosimiglianza testuale. Basti pensare ai riferimenti ai generi popolari, come le soap, il giornale Cosmopolitan, il musical o il montaggio dei report giornalistici fatti da Erik, che portano in scena la manipolazione e la ricostruzione narrativa della realtà.
Troviamo anche una scena meta-teatrale nella quale Mila prepara il suo ruolo per un musical, quello di una prostituta russa. Il testo che studia viene progressivamente tagliato dal regista, per finire poi ridotto soltanto alla scena dello spogliarello. La conquista dello spazio scenico per la donna non corrisponde dunque alla conquista della parola. Štivičić ci mostra come la verità del soggetto non abbia una propria dimensione, ma si trovi sempre a metà strada tra sé e la società, dove la lingua funge da medium diventando il luogo della costruzione stessa dell’individuo. Braidotti in un suo contributo evidenzia che la lingua «è il capitale simbolico della nostra cultura» e la drammaturga croata sottolinea questo concetto in un dialogo fra Marko e Mila: «MARKO: You should have talked to someone. Professional, I mean. | MILA: I’m a child of communism, I don’t believe in paying for advice.»
La non appartenenza ai luoghi è una condizione dei personaggi ulteriormente elaborata quando essi si relazionano al nuovo contesto in cui si trovano. Sono davvero nell’intermezzo in quanto non più adeguati all’ambiente che hanno lasciato e non all’altezza di quello che cercano di conquistare. Londra non li rende liberi poiché ciascuno di essi è preceduto dagli stereotipi disegnati dal potente immaginario dell’Europa occidentale, dove una ragazza croata rappresenta il modello ideale di una prostituta dell’Est e un uomo balcanico rimane ingabbiato nell’immagine dell’ubriacone e del mafioso. Forse allora è in questo movimento stringente fra un prima e un dopo, fra due paesi e fra due lingue, che nasce la loro fragilità.
Il concetto d’identità è sempre retrospettivo, la sua rappresentazione dipende dalle mappe dei luoghi in cui siamo stati e dove, di conseguenza, non siamo più. La costruzione dell’identità, nella maggior parte dei casi, dipende dall’interpretazione e dall’invenzione del passato. Tiasha rielabora la sua mappa dell’Europa aggiungendo, accanto alla propria, un’altra strada: quella di Erik. Forse quello che l’autrice vuole comunicarci, alla fine, è che non sono soltanto i personaggi a essere plasmati dai loro spostamenti, ma è l’Europa stessa a farsi spazio attraverso l’incedere dei loro passi. «L’Europa sta cambiando», scrive Štivičić, ed è necessario chiedersi che cosa davvero possa significare stare dove non si appartiene, come questo cambi il nostro concetto stesso di appartenenza o cosa voglia dire essere straniero e dover apprendere un’altra cultura, un’altra lingua, contaminandola. E ci torna davanti agli occhi l’immagine di un semplice pacco di cartone, sul bancone della posta, pronto per essere spedito con l’iscrizione fragile:
TIASHA: Yes. It looks like you want to look inside. You shouldn’t, but you want to. And pick things up and see what is under.
GAYLE(taken): Yes. Yes, that’s what it looks like.
TIASHA: Like persons.
GAYLE: Exactly. You know, my mother had this box, and every once in a while she used to put something in it, something she cherished. She never really looked at it, just stored it in the box. For years. And then, when she died, I was nineteen, I opened the box and I started picking things up. It’s funny what you can tell about a person from the trinkets they keep. It was like, with every layer of things I was chronologically going back through layers of her character. And when I reached the very bottom it was like looking at a different person. Someone she was years ago. Someone I never even knew.
TIASHA: Did you find something nice on bottom?
Jovana Malinarić