Che volto ha la nuova generazione del teatro europeo? Di che cosa parlano e quali linguaggi usano gli artisti tra i venti e i trent’anni? La voce della nuova scena non è facile da definire, non solo perché le diverse creatività sfuggono a etichette e parametri unici, ma anche perché le occasioni per intercettarne i lavori non sono molte. Per questa ragione, sono particolarmente preziose le opportunità come Future Laboratory, un progetto europeo interamente dedicato alla creatività delle giovani generazioni e all’organizzazione di residenze di ricerca, nonché alla costruzione di reti internazionali. Dodici importanti istituzioni europee attive nel campo delle arti performative (tra queste, il Piccolo Teatro di Milano, il Théâtre National de Strasbourg e il Teatro Municipal di Porto) hanno selezionato altrettanti giovani artisti per un percorso di due anni, scandito in residenze successive e accompagnato dal confronto con uno o più mentori.
Tra il 28 e 30 novembre 2024, presso il Théâtre de la Ville de Luxembourg (una delle dodici istituzioni aderenti al progetto) i protagonisti hanno presentato i risultati della loro ricerca davanti a critici e operatori dei dodici paesi partner. La forma scelta – una restituzione ancora aperta e non compiuta del percorso biennale – non permette vere e proprie valutazioni critiche sul singolo lavoro, ma consente senz’altro alcune riflessioni più ampie: come raccontano (e come guardano) il mondo i giovani artisti europei?

Viviana Dorsi / progetto di Giulia Sangiorgio

Partiamo dalla conclusione: a emergere con forza è una elevatissima consapevolezza politica, che si nutre talvolta anche di una certa solidità teorica. È stato senz’altro l’impianto del progetto a incoraggiare una particolare attenzione ai temi dell’esclusione e al coinvolgimento delle comunità locali; ma la maturità degli approcci metodologici alla ricerca – e più in generale lo sguardo verso la realtà che traspare dai lavori presentati – mostra con evidenza che l’attenzione politica degli artisti non nasce con e per il progetto, come fosse una risposta meccanica a un’imposizione dell’alto, ma è parte integrante della loro postura. L’indicatore più evidente è a prima vista quello tematico: gli oggetti della ricerca spaziano dalla malattia mentale (Carlota Matos, Portogallo), alle emissioni tossiche di origine industriale (Sára Märc, Repubblica Ceca), fino al trattamento sanitario e giuridico della dipendenza da droghe (Maurin Ollès, Francia).

Ma l’oggetto dell’attenzione, prima ancora degli argomenti trattati, è la responsabilità etica dell’arte come matrice di narrazioni condivise: si coglie infatti un’urgenza trasversale di mettere in discussione non solo il cosa ma anche il come si racconta; di smascherare l’invisibile forza di esclusione messa in atto anche nei contesti apparentemente progressisti; di decidere consapevolmente a chi si vuole passare il microfono; di non prestarsi più a indossare gli occhiali sul mondo dei gruppi dominanti.
Odete (artista attiva in Portogallo), nel corso della sua lecture-performance, si è per esempio soffermata sulla sistematica cancellazione del diverso e delle minoranze nelle narrazioni del presente. Per mettere in luce quanto le arti performative possano diventare in questo senso una importante agorà di discussione – senza timore per i suoi aspetti più conflittuali o corrosivi – Odete ha mostrato e commentato la testimonianza video di un recente episodio che ha scosso la comunità teatrale portoghese: nel 2023, al Teatro Municipale São Luiz, durante un allestimento di Tutto su mia madre (tratto dall’omonimo film di Almodovar), un’attivista trans ha interrotto lo spettacolo ed è salita sul palco, accusando il regista e gli interpreti di transfake, perché a interpretare il ruolo di Lola era un attore cisgender. Dove iniziano le pratiche artistiche e iniziano quelle politiche? È possibile rifondare una comunità legata alle performing arts su basi autenticamente etiche? Come si deve agire quando il teatro diventa (anche inconsapevolmente) terreno di esclusione?

Ruxandra Simion

Il contesto nel quale tali cruciali questioni sono state lasciate riverberare (un progetto finanziato dall’Unione europea, con il coinvolgimento di importanti enti istituzionali) rende ancora più rilevante il loro impatto e la loro potenzialità. I diversi paesi, per esempio, sono stati raccontati dai rispettivi artisti con tonalità tutt’altro che trionfalistiche, ma piuttosto attraverso una lucida disamina delle contraddizioni e delle zone d’ombra. L’artista italiana Giulia Sangiorgio (con la collaborazione della drammaturga Eliana Rotella, e del video designer Andrea Centonza) ha per esempio decostruito l’immagine da cartolina del sud Italia, mettendo in luce i rischi e storture dell’overtourism. Sangiorgio, pugliese d’origine, ha scelto infatti come punto di partenza della sua performance (interpretata dall’attrice Viviana Dorsi) un recente caso di cronaca locale, cioè un piccolo scandalo giornalistico che ha investito il centro storico di Bari: la pasta fresca venduta dalle donne sulla porta di casa (attrazione turistica per molti stranieri di passaggio) si è rivelata in realtà una contraffazione, cioè la vendita di un alimento prodotto su scala industriale e spacciato per artigianale. Come spesso accade, l’iper-specifico diventa universale, e il singolare caso ha saputo illustrare icasticamente le conseguenze della cieca ricerca di un’autenticità pret-à-porter da postare su Instagram. Sullo sfondo, la drammaturgia evoca le ricerche di Ernesto de Martino sul sud, e così nell’identità della Puglia – intrappolata tra folklore e mercato – sentiamo echeggiare quella della stessa artista, che riflette sul complesso tema della memoria, tra privato e collettivo.
Il lato oscuro e invisibile dell’Italia turistica compare anche nella ricerca di Ruxandra Simion (Bucarest) che dà voce, nella sua lecture-performance, alle straniere impiegate nelle imprese di pulizia presso gli alberghi di lusso del nord Italia; estranee, non integrate, strangolate da inaccettabili condizioni di lavoro stagionali, le lavoratrici diventano immagine delle violenza prodotte dall’industria del lusso, che promette “wellness e relax” a pochi, camminando sui corpi e i diritti di molte.

Lo sguardo dei giovani artisti europei sembra dunque indirizzato con consapevolezza verso l’osceno, cioè verso tutto quello che rimane, etimologicamente, fuori dai riflettori. Le loro opere frugano in ciò che non vogliamo guardare, costringendoci a cambiare la prospettiva, a generare uno scarto, a mettere in questione la nostra postura, a farci fare un passo a lato. Talvolta basta spostarsi di pochi centimetri per vedere ciò che resta fuori dal nostro campo visivo.

Maddalena Giovannelli


in copertina: Lucille Saada