di Angélica Liddell
visto al Teatro Politeama nell’ambito di Napoli Teatro Festival
La fruizione di uno spettacolo teatrale ha a che fare anche con le aspettative che questo suscita. Così, davanti alla nuova creazione di Angélica Liddell, è difficile prescindere dalle molte etichette che le sono state attribuite (tra le più frequenti: “geniale”, “provocatoria”, “controversa”), e che rimbalzano di continuo tra stampa e pubblico. Il nome dell’artista catalana suonerà probabilmente noto anche alle orecchie più refrattarie al teatro: per i suoi spettacoli (su tutti: Prima Lettera di San Paolo ai Corinzi, presentato all’Olimpico di Vicenza nel 2015) si grida allo scandalo ancora prima del debutto, in un tamtam mediatico che gonfia e sottolinea i dettagli più scabrosi.
Il Napoli Teatro Festival 2017, nel primo anno della direzione di Ruggero Cappuccio, si aggiudica la produzione e la prima assoluta di Genesis 6, 6-7, ospitando l’attesa performance nella quasi ossimorica cornice di un classico teatro all’italiana, il Politeama. I primi minuti dello spettacolo sembrano soddisfare le previsioni sul caso-Liddell: un maxi schermo proietta i dettagli di un’operazione chirurgica di circoncisione, con un sadico zoom sui ferri che pinzano la pelle dell’organo. Ma ci si accorge ben presto di trovarsi di fronte a un’opera polifonica e complessa, che poco concede al sensazionalismo e al compiaciuto coinvolgimento del pubblico. Del resto il tema scelto – e annunciato fin dal titolo – è niente meno che un’indagine sul tema della creazione, che parte dall’Antico Testamento per poi toccare il mito greco e arrivare fino ai conflitti contemporanei.
Liddell si concede il lusso di uno sviluppo drammaturgico lento e sgranato, che indugia in lunghe pause e protratti silenzi, e che rinuncia al sostegno di un apparato esplicativo. In un onirico susseguirsi di immagini si articola tutto il possibile spettro di significati intorno al tema della nascita, attraversando l’intera area semantica del verbo greco gignomai (“nasco”, “divento”, ma anche “sono”): è il ‘divenire’ della materia, in tutte le sue declinazioni, a interessare l’artista catalana. Ma la trasformazione, nell’universo-Liddell, conduce inevitabilmente anche a morte e distruzione e l’atto di creare viene sempre accostato dialetticamente a quello di uccidere: sono questi i due volti di ogni essere demiurgico, dalla divinità alla madre. Ad accompagnare una galleria di figure-emblema (su tutte Abramo e Medea) interpretate dallo straordinario gruppo di performer dell’Atra Bilis Teatro, troviamo un caleidoscopio di simboli: da un lato elementi arcaici e archetipici (latte, pietra, coltello, pane), dall’altro segni violentemente contemporanei (chitarre elettriche, kalashnikov) in un accostamento ardito e antinomico che ricorda certa Abramovic. Genesis 6, 6-7 conferma la potente e raffinata calligrafia dell’autrice e la sua capacità di proporre creazioni complesse e di largo respiro; allo stesso tempo lo spettacolo risulta spesso impervio nella fruizione, talvolta algido ed eccessivamente stratificato. Ma non appena Angélica Liddell prende il centro della scena, ecco che sembra scorrere il sangue nella rarefatta iconografia dello spettacolo: il monologo finale, pronunciato in catalano, dà voce a una Medea terrigna e piena di rabbia che invoca morte per i suoi figli. E dietro alle sue parole di madre non è difficile scorgere un dio altrettanto vendicativo con le sue creature, che lascia agli spettatori poca consolazione e un’impossibile catarsi.
Maddalena Giovannelli