regia di Bob Wilson

visto al Piccolo Teatro Strehler di Milano _ 9-14 novembre 2010

Il vento spazza la coltre di seta che nasconde la scena.
La sveglia suona, la luce si accende.
Lo spettatore, tolto il velo, si trova ancora una volta a confrontarsi, attraverso la straniante lente beckettiana, con l’essenza  e la condizione dell’essere umano (e in particolare quella della donna).
Winnie e Willie emergono da una spaccatura del suolo.
Uomini come insetti.
Ci si contorce, si arranca.
Insetti come uomini.
Non ci si capisce, non ci si tocca, ci si vede a stento.
Un altro giorno felice.

Dopo più di un anno di tournée, la messa in scena di Bob Wilson, commissionata al regista dal festival dei Due Mondi di Spoleto dove ha debuttato nel 2009, approda al Piccolo Teatro di Milano all’interno della rassegna “Festival Teatri d’Europa”. Per tale occasione è stata preferita la versione per l’estero dello spettacolo, quella in francese. Scelta curiosa che lascia un po’ d’amaro in bocca dato che la lingua d’oltralpe non è propria né del testo originale, né degli italianissimi interpreti, né, verosimilmente, di competenza della maggior parte degli spettatori meneghini. Esigenze di bilancio (i biglietti della rassegna sono leggermente maggiorati rispetto agli standard) o voglia di internazionalità? Meglio non chiederselo, coi tempi che corrono.

Wilson, conservando con coerenza il suo stile, confeziona la propria versione del classico beckettiano puntando sul rigore delle linee, sull’intensità dei colori, sul magistrale utilizzo delle luci, rendendo la scenografia, nella quale è incastonato il talento di Adriana Asti, architrave di questa cattedrale all’immanentismo che è Giorni Felici.
Winnie tende al cielo, alla speranza di un futuro, di un dio che venga a liberarla e cambi le cose ma resta avvinta alle sue pesanti fondamenta, al suo essere terreno, greve (Willie), fatuo.

Scevra di orpelli, di emozioni e della vitalità – repressa e depressa – che donava al lavoro di Beckett drammaticità e, per contrasto, volontà di riscatto, l’opera di Wilson è una vignetta pop-espressionista dall’alto contenuto formale che sopprime le didascalie e le pause del testo originale e, insieme ad esse, la reale possibilità di inserirvi una riflessione meditata da parte dei personaggi e del pubblico.
Calati nella medietà senza scampo delle loro vite, Winnie e Willie sono perfettamente in sintonia con l’eternità della loro condizione: nessuna mancanza li scalfisce realmente, il lamento diventa posa di un’insoddisfazione le cui reali ragioni si sono ormai dimenticate, i bisogni sono capricci, la volontà di cambiare è solo vana velleità.
“Un altro giorno felice”.
A furia di ripeterlo sembra quasi che lo slittamento di senso sia riuscito: il concetto di felicità si è sovrapposto alla quotidiana vacuità dell’esistenza, priva di acme, priva di rischi, dove persino il sogno-paesaggio che compare a incarnare il desiderio di evasione è kitsch e di cattivo gusto.
L’uomo abbruttito da se stesso confonde i piani:  la borsetta di Winnie contiene insieme ai ninnoli di tutti i giorni una pistola la cui carica d’inquietudine si stempera, s’annacqua, svanisce.
La sveglia suona, la luce si accende.
Tutto si equivale.
Sempre virgole, mai un punto e a capo.

Tradire i classici, nell’accezione ambivalente dell’espressione è in entrambi i casi missione ardua: filologia e innovazione possono compenetrarsi, creare nuovo senso, ampliare il punto di vista conservando l’essenza dell’originale. Tuttavia, in alcuni casi, possono coesistere e non cooperare come separati in casa.

-Uno se li scorda, i classici. (Pausa). Oh, non tutti. (Pausa). Una parte. (Pausa). Una parte resta. (Pausa). E’   questo che trovo meraviglioso, una parte resta, dei classici, ad aiutarci a passare il giorno. (Pausa). Eh sì, una grazia, una vera grazia. (Pausa). E adesso? (Pausa). E adesso, Willie? […]
-E adesso niente, Winnie

E adesso Wilson? Si potrebbe incalzare con calcolata malevolenza.
Il regista texano ha risposto: “Mi piace Giorni Felici perché è allo stesso tempo molto semplice ed estremamente complesso. Si comprende immediatamente la situazione. Se compri il biglietto di uno spettacolo intitolato Giorni Felici, entri in teatro e vedi una donna sepolta fino al collo, puoi dimenticare la situazione e sentirti liberamente coinvolto”.
Una voce off, a guisa di didascalia, avrebbe potuto aggiungere alle sue spalle ricalcando le battute di Winnie con in mano il parasole intonso e non bruciacchiato: “Qualcosa doveva accadere e non è accaduto”.

La sveglia suona, la luce non si accende.

Corrado Rovida